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19/09/2013 07:00:00

D'Alì, il giorno più lungo. Oggi forse la sentenza

 Potrebbe essere il giorno decisivo, il più lungo nella lunga vicenda giudiziaria del senatore Antonio D’Alì.

Oggi alla 10 accusa e difesa saranno davanti il giudice Francolini, al Tribunale di Palermo per l’ultimo atto che vede il senatore del Pdl processato col rito abbreviato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’udienza ci sarà, perché gli avvocati hanno comunicato che non parteciperanno allo sciopero indetto dai penalisti contro la riforma della giustizia. L’udienza ci sarà e comincerà con l’ultima arringa dei pm Andrea Tarondo e Paolo Guido. L’ultima decisiva esposizione dei fatti. E la conferma della richiesta di condanna già presentata prima dell’estate. “Il senatore è stato anello di collegamento tra la società civile e l’organizzazione mafiosa” scrivono nella requisitoria i due pm che a giugno hanno chiesto la condanna per d’Alì a 7 anni e 4 mesi di carcere. Dopo l’intervento dell’accusa toccherà ai legali di d’Alì, Giovanni Bosco e Stefano Pellegrino. Poi dovrebbe arrivare la sentenza.

La vicenda di D’Alì è lunga e complessa. D’Alì oggi è vice presidente dei senatori del Pdl e capogruppo in commissione Finanze al Senato. Siede a palazzo madama dal 1994, è stato sottosegretario all’Interno dal 2001 al 2005, poi presidente della commissione Ambiente al Senato. Proviene da una delle famiglie più potenti della Sicilia occidentale.

Per anni è stato solo sfiorato dalle tante inchieste sulla mafia nel trapanese. Ora invece rischia la condanna.

Il pm Guido nel corso della requisitoria ha spiegato che il senatore, indirettamente, come mai il senatore fino al 2011, anno in cui è stato chiesto il rinvio a giudizio, non è mai stato sfiorato dalle inchieste: “D’Alì è un soggetto accorto, sottile e prudente”.
D’Alì secondo gli inquirenti sarebbe stato a disposizione della mafia. Avrebbe intrattenuto rapporti con il boss di Castelvetrano Francesco Messina Denaro e con il figlio Matteo, l’ultimo super latitante. Un rapporto datato che si sarebbe nel tempo consolidato. “Non è stato da semplice portatore d’acqua al mulino dei mafiosi”, hanno spiegato i Pm. Per i magistrati della Dda di Palermo D’Alì rientra in “quel contesto dove non ci sono ‘punciuti’ ma soggetti che si prestano o si sono prestati a dare una mano ai boss per potere condurre i propri affari e mantenere il controllo del territorio, non solo controllo ‘militare’ ma anche di sociale, economico, imprenditoriale e politico”.

Sono tanti i fatti portati davanti al giudice dai Pm. Si parte dall’accusa di riciclaggio di 300 milioni relativi alla vicenda della vendita di un terreno in contrada Zangara, a Castelvetrano, di proprietà della famiglia D’Alì a Geraci Francesco (che agiva quale prestanome di Riina Salvatore, su espresso mandato di Messina Denaro Matteo). Vendita per gli inquirenti fittizia. Con i Messina Denaro agli atti dell’accusa viene evidenziato un rapporto consolidato ai tempi in cui don Ciccio era campiere nei terreni dei D’Alì. Con Matteo Messina Denaro cresciuto in quei terreni, a Castelvetrano, confinanti con i terreni riconducibili ad altri mafiosi del calibro di Riina e Provenzano.

Poi c’è la parte più recente, quella in cui D’Alì era già all’interno degli organi istituzionali.

Per gli inquirenti il senatore è intervenuto “ripetutamente presso organi istituzionali ed uffici pubblici al fine di inibire o ostacolare le iniziative a sostegno delle imprese sequestrate o confiscate (quali ad esempio la Calcestruzzi Ericina S.r.l.), con ciò contribuendo all’espansione economica ed al controllo del mercato del calcestruzzi da parte di imprese e società direttamente riconducibili all’associazione mafiosa (tra cui la Sicilcalcestruzzi S.r.l. e la Vito Mannina S.r.l.)”. Uno su tutti è appunto il caso della Calcestruzzi ericina e della vicenda dell’allontanamento da Trapani dell’ex Prefetto Fulvio Sodano. Allontanamento che sarebbe stato deciso dall’allora sottosegretario all’Interno del Gorverno Berlusconi, dopo il lavoro di Sodano di bloccare il passaggio della Calcestruzzi ericina ad aziende vicine alla mafia trapanese, quella di Ciccio Pace per intenderci.

Nella requisitoria di Guido e Tarondo si legge anche che D’Alì sarebbe intervenuto “su sollecitazione di singoli componenti dell’associazione mafiosa, sul procedimento amministrativo relativo ad appalti, lavori pubblici e finanziamenti (ad esempio sulla formazione della commissione di gara per l’aggiudicazione dell’appalto della Funivia di Erice della Provincia regionale di Trapani, sulla valutazione di congruità del canone di locazione della caserma carabinieri di S. Vito Lo Capo, sull’erogazione dei finanziamenti relativi al Patto territoriale Trapani Nord, sull’attribuzione di forniture relative ai lavori di appalto per la messa in sicurezza del porto di Castellammare del Golfo); con ciò contribuendo a rafforzare il controllo di attività economiche, nonché il conseguimento di profitti e vantaggi ingiusti da parte di Cosa Nostra che, a sua volta, progettava e deliberava le proprie attività delittuose in ragione della consapevolezza di tali interventi”. Gli inquirenti in sostanza hanno delineato un rapporto tra D’Alì ed esponenti di spicco della mafia trapanese costante negli ultimi 20 anni. Dai Messina Denaro a Ciccio Pace, a Vincenzo Virga, Nino Birittella. E diversi i pentiti che hanno fatto dichiarazioni sui rapporti tra d’Alì e la mafia. Uno su tutti Vincenzo Sinacori che ha raccontato del rapporto con i Messina Denaro. Il pentito Vincenzo Campanella ha riferito che “avendo avuto un contatto con D’Alì in relazione alla acquisizione di una sala Bingo, informò di tale rapporto il capo della famiglia mafiosa di Villabate Nicola Mandalà, il quale approvò l’attività svolta da Campanella, confermando che D’Alì era un soggetto politico a disposizione dei vertici mafiosi trapanesi ed in particolare di Messina Denaro Matteo e Virga Vincenzo”. Agli atti del processo c’è anche la testimonianza dell’ex moglie del senatore trapanese, Antonietta Picci Aula. Ai pm ha dichiarato di avere visto un giorno giungere al marito un telegramma di un boss dal carcere che si lamentava di essere stato “dimenticato” dal marito.

D’Alì ha sempre respinto ogni accusa. Di lui i suoi legali dicono che “non s'è limitato fino ad oggi semplicemente a respingere l'accusa di essere un concorrente esterno di Cosa nostra, ma ha processualmente e positivamente provato la totale estraneità ai fatti contestatigli. Ribadiamo – concludono Bosco e Pellegrino - che fino ad oggi per ogni addebito ascritto al nostro assistito, abbiamo prodotto ‘documentazione di fatti concreti’ e ‘riscontri positivi’ che escludono qualsivoglia addebito di reato del senatore D'Alì per questo abbiamo chiesto e torneremo a chiedere al Giudice la piena assoluzione del Senatore”.