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24/10/2014 12:25:00

Chi piange a Palermo per la caduta di Mr. Cianciamino

 Ma c’è un pupo, c’è un puparo o ci sono tanti pupi senza pupari, nella brutta, pessima storia di Massimo Ciancimino, superteste della trattativa stato-mafia ma rinviato a giudizio – in due processi e in due città diverse, Palermo e Caltanissetta – per rispondere di calunnia? L’ossimoro processuale superteste-calunniatore non preoccupa i pm palermitani che si occupano di questo dibattimento, impegnati a preparare la madre di tutte le udienze, quella in cui – c’è da giurarlo – tenteranno il colpo grosso al Quirinale, per risollevare un processo che si è afflosciato anche su quei giornali che pure lo avevano sostenuto e lo sostengono.

Un processo che vive ormai del tentativo di trascinare il presidente della Repubblica – o di dare l’impressione “che ci sia comunque qualcosa” su di lui – nel gorgo di una vicenda tutta da dimostrare, quella dei presunti accordi inconfessabili nel periodo delle stragi del ’92-‘93. Ciancimino è un (presunto, per carità) calunniatore ma anche un (altrettanto presunto, in verità) superteste. E non c’è verso di schiodare questa convinzione, fra i tre o quattro pm della procura di Palermo che ancora gli prestano fede. Nemmeno dopo che – è successo l’altra sera, lunedì, in un’agitata riunione della Dda – altri magistrati di quello stesso ufficio si sono tardivamente svegliati e ne hanno dette quattro, ai loro colleghi, sulla conduzione di un dibattimento che per poco non ha visto entrare virtualmente Totò Riina e Luchino Bagarella, come dire più di duemila morti in due, nelle sale damascate del Quirinale. Col consenso della stessa procura, nemmeno richiesto dai giudici. No, il Ciancimino ormai passato di moda e mollato da Repubblica come dal Corriere, dopo i fasti passati e le prime pagine su ogni stupidaggine che raccontava, il contraddittorio uomo che avrebbe risvegliato le coscienze e le memorie di chi sa, ma al tempo stesso non ha esitato a fabbricare prove e ad inventarsi balle su balle, non aveva preoccupato più di tanto il padre del processo sulla trattativa, Antonio Ingroia, che lo aveva addirittura indicato come una “icona dell’antimafia”.

 

Lui, l’ex magistrato che sul processo di Palermo ha fondato un proprio partito e una candidatura addirittura a premier, senza mietere consensi oceanici, oggi si dedica all’attività di sottogoverno, grazie a un cumulo di incarichi ricevuti dal presidente siciliano Rosario Crocetta, leggermente incompatibili tra di loro, secondo l’Autorità anticorruzione, pensa un po’. I dubbi su quel che è avvenuto e avviene nel processo, e per  in particolare per quel che riguarda il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, sono legittimi, alla luce del rinvio a giudizio deciso martedì a Caltanissetta, con accuse di calunnia ai danni dell’ex superpoliziotto Gianni De Gennaro e dello 007 Lorenzo Narracci. E lo sono ancor di più in un momento in cui il capo dello stato si prepara a essere ascoltato su un tema che ha detto chiaro e tondo di non conoscere, in una udienza in cui conteranno più le domande che rimarranno senza risposta che quelle che verranno ammesse dalla Corte d’assise. E i quesiti che verranno stoppati saranno equamente distribuiti tra gli avvocati dello stesso Ciancimino, di Totuccio Riina e i magistrati della pubblica accusa, che pur di fare di testa loro hanno “ammesso” il capo facente funzioni del loro ufficio, Leonardo Agueci, ma solo a condizione che faccia da spettatore, mentre loro rivolgeranno le domande a Giorgio Napolitano.

 

 

Pupo e pupari o tutti pupi o pupetti, per lungo tempo in mano a un piccolo imbroglione. Inutile ricordare le imprese antiche e recenti di Massimuccio, questo reuccio del Photoshop assurto a bocca della verità sulla ribalta di teatri e salotti televisivi, a cominciare da quello intestato alla coppia Santoro-Travaglio, che per anni hanno pompato le sue menate, questo specialista del copia e incolla, che conservava gelosamente documenti inediti, esclusivi e soprattutto esplosivi del padre e che conservava anche a casa sua candelotti di  esplosivo vero, che meno male che non è saltato in aria, perché avrebbe ammazzato chissà quante persone, nel palazzo dello stesso piccolo Ciancimino e in quelli vicini. La condanna per questa storia, l’unica roba veramente esplosiva che il superteste possedeva, è valsa solo tre anni di carcere, però. Inutile rimestare le imprese dell’icona dell’antimafia, dello sbruffone che andava in giro per l’Italia a bordo di una rombante motocicletta a trattare con un commercialista indagato per ndrangheta, dal quale voleva denaro liquido e aiuti vari per fare i propri comodi. Inutile ricordare le indagini che ha in mezza Italia, i processi per frode fiscale che ha in Emilia Romagna, di riciclaggio che ha a Roma, di calunnia che avrà presto anche a Bologna, la maxi-misura di prevenzione di Palermo, relativa al tesoro del padre.

 

 

Per tratteggiare la figura di colui che doveva riscrivere – assieme al suo mentore, l’ex magistrato Ingroia – la vera storia d’Italia, si dovrebbero piuttosto raccontare vicende recenti e purtroppo spiacevoli, perché riguardano la vita sentimentale e matrimoniale di Ciancimino, protagonista, ahilui, della separazione dalla moglie. E non è il caso di scendere in particolari, perché il superteste sarebbe magari pronto a invocare la privacy e a dire che pur di delegittimarlo si scende sul personale: basta dire che, a fronte di disavventure che possono capitare a ogni uomo sposato, Massimuccio ha reagito in maniera perlomeno scomposta, facendo realizzare magliette per rendere pubblica (lui stesso), in maniera alquanto greve e colorita, una vicenda che lo vedeva come vittima di fatti che non si augurano a nessuno. E’ stato bloccato in extremis, prima che regalasse a un centinaio di amici una t-shirt che avrebbe diffuso nomi, situazioni e vicende che stanno alla base dei suoi legittimi dolori.

 

Questo episodio, nella ricerca dei pupi e dei pupari, non si può far finta di non vederlo. Non si può ignorare che qualcosa non funziona, in un uomo che sosteneva – in conversazioni intercettate – di avere utilizzato il computer del pm Ingroia per entrare nelle banche dati di polizia, Guardia di Finanza e quant’altro e sul quale è stata cucita addosso la teoria della credibilità frazionata, altrimenti detta dell’attendibilità quando mi conviene: affidabile, il Cianci, quando parla dei grandi misteri d’Italia, un mezzo minchione quando cazzeggia sui computer di Ingroia. Un atteggiamento non nuovo, se si pensa che Totò Riina è stato equiparato all’oracolo di Delfi quando diceva – nelle intercettazioni – cose che convenivano all’accusa, su Berlusconi, le stragi, le minacce ai pm, i progetti di attentato, e ridotto invece a un infame depistatore quando ne diceva altre meno convenienti, tipo che Mancino con la trattativa non c’entra, che il papello non esiste e che Massimuccio raccontava balle.

 

C’è dunque qualcuno che ha manovrato Massimuccio, come adombrano i difensori di parte civile di Gianni De Gennaro, prontamente ripresi da Corriere e Repubblica, sempre più preoccupati di prendere le distanze dall’ex accusatore? E se c’è un manovratore, chi sarà mai? Mafia dei colletti bianchi? Servizi segreti immancabilmente deviati? Massoneria anch’essa invariabilmente inquinata? La politica? E chi può escludere che possa esserci stato il compiacimento, se non la complicità, di qualche potere forte annidato dentro gli uffici giudiziari? Forse è tutto questo o non è nulla di tutto questo. Forse è solo una brutta, pessima storia di ordinaria giustizia. Della quale, purtroppo, non frega quasi più niente a nessuno. Se non alla giustizia stessa.


Riccardo Arena - Il Foglio del 23 Ottobre 2014