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05/08/2015 06:20:00

Monsignor Cassisa, l'arcivescovo trapanese amico dei potenti di Sicilia

 Per quasi un ventennio (1978 – 1997) mons. Salvatore Cassisa è stato l’arcivescovo di Monreale, una delle più vaste e ricche diocesi della Sicilia, il cui territorio va dal trapanese al corleonese. Il Concilio Vaticano II, conclusosi nel 1965, aveva diviso i prelati in due schieramenti abbastanza netti: alcuni avevano preso sul serio l’invito a vivere il ministero pastorale in sobrietà e distanza critica dai poteri civili; altri, ritenendo questa conversione un indebolimento dell’influenza sociale della Chiesa, avevano ritenuto opportuno mantenere lo stile pre-conciliare di un cardinal Ernesto Ruffini. Cassisa non ebbe dubbi su quale versante riconoscersi e, con una sincerità che poté talora risultare sfrontata, non fece nulla per nascondere le sue relazioni con i potenti dell’isola. Alcuni ruoli istituzionali, più o meno strettamente legati alla sua funzione episcopale, lo costrinsero quasi a tessere un’intricata tela di rapporti impegnativi. Intanto come Presidente (e pressocché dominus unico) della Fabbriceria del duomo, una sorta di cantiere perenne che ha macinato, durante gli anni di Cassisa, almeno quarantacinque miliardi di lire di contributi finanziari pubblici tra lotta alle termiti, interventi di restauro e “investimenti per l’occupazione”. Poi come Priore dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, organizzazione fortemente elitaria dal punto di vista sociale di cui hanno fatto parte, durante il priorato dell’arcivescovo, funzionari dello Stato come Bruno Contrada e imprenditori come Arturo Cassina, per decenni “re degli appalti” nella Palermo democristiana. Rinomati i suoi ottimi rapporti anche con scienziati di fama internazionale come Antonio Zichichi.
Da buon siciliano, Sua Eccellenza non si è mai rifiutato di dare una mano né ai parenti né agli amici. Non potranno certo accusarlo di scarsa generosità le sue due nipoti che, grazie a piccoli risparmi e a qualche regaluccio dello zio, sono riuscite a costruirsi due ville di settecento milioni di lire ciascuna . Celebre, poi, la protesta di Leoluca Orlando quando fu da lui pressato invano affinché versasse un centinaio di miliardi delle casse comunali al Luogotenente dell’Ordine del Santo Sepolcro, Arturo Cassisa, per lavori che il sindaco di Palermo ritenne mai eseguiti. Lo stesso Orlando che rinunciò ad accogliere papa Wojtyla all’aeroporto di Punta Raisi, nel 1995, per la presenza di Cassisa, in quel momento nel pieno di una tempesta giudiziaria.
Da parte loro, poi, anche i beneficiati dell’arcivescovo sono stati spesso fedeli: il giorno dopo l’assassinio di Salvo Lima, Cassisa espresse ai cronisti tutto il proprio dispiacere per la fine di “un amico che, proprio alcuni giorni fa, è corso in arcivescovato perché avevo bisogno di chiedergli un favore”. (In realtà, l’eurodeputato democristiano era anche un mezzo parente da quando un suo cugino in seconda aveva preso in moglie una delle nipoti dell’arcivescovo).
Come tutte le personalità dai tratti forti, anche Cassisa ha avuto i suoi critici e i suoi avversari. A qualche giornalista, ad esempio, non fece ottima impressione una fotografia, proprio all’ingresso del duomo, dell’arcivescovo con il papa (casualmente in secondo piano). Qualche ex-tossicodipendente ricorda di aver ricevuto con un pizzico di delusione, insieme ai suoi compagni, il dono per ciascuno di loro da parte dell’arcivescovo in visita alla comunità di recupero di Pagliarelli: una foto gigante del presule benedicente con lo stesso gesto del Cristo Pantòcrator dell’abside della cattedrale di Monreale. Le accuse di monsignor Giuseppe Governanti (ex presidente del Tribunale ecclesiastico regionale), riguardanti tangenti del venti per cento sui lavori di restauro del duomo, costrinsero le procure di Palermo e di Milano a indagare sul presule (che, comunque, uscì prosciolto, a differenza di Angelo Siino, ministro dei lavori pubblici di Totò Riina, condannato per gli stessi reati). L’arcivescovo tentò di punire in maniera esemplare il suo presbitero che aveva “intaccato, svilito e pregiudicato, il prestigio e la funzione dell'autorità diocesana", ma dovette fare marca indietro quando i parrocchiani di Governanti misero nero su bianco una lettera indirizzata direttamente a Giovanni Paolo II. Se la giustizia umana fu propizia (in altra occasione la Cassazione annullerà le condanne per truffa all’unione Europea in due gradi di giudizio) , molto più severo si rivelò il giudizio del Vaticano che lo sostituì, con il cardinale Pappalardo, nella carica di Priore dell’Ordine dei Cavalieri e gli rifiutò qualsiasi proroga al compimento dei 75 anni. Furono dimissioni laboriose con strascichi pirandelliani. L’arcivescovo, infatti, in vista del pensionamento si era fatto ristrutturare un piano della curia con vista sull’ex Conca d’Oro e lì continuò a ricevere clero e laici, in imbarazzante condominio con i due vescovi successivi: Pio Vittoro Vigo e Cataldo Naro. Quest’ultimo – notissimo e apprezzato storico dei rapporti fra Chiesa cattolica e cosche mafiose - si oppose decisamente all’anomala convivenza e ottenne dalla Congregazione romana per i vescovi un decreto ingiuntivo di sfratto (pena la sospensione a divinis). Ma, secondo alcuni suoi intimi, la tensione con l’ingombrante predecessore non fu estranea all’infarto cardiaco che ne interruppe tragicamente la missione, a neppure sessant’anni, due giorni prima che il decreto entrasse in vigore. Un saggio a firma del filosofo del diritto della Sapienza di Roma, Francesco Mercadante, ha reso pubbliche nel 2010 delle lettere esplosive. Da una parte Cassisa che scrive al cardinale Re, suo referente a Roma: “Qui a Monreale Naro non è al posto giusto.Si cerchi un’altra sede, si provveda dall’alto”; dall’altra Naro che scrive a un amico: “Io temo che il cardinale Re stenti a considerare che nella mia diocesi sono comprese capitali della mafia”.
Dove riposeranno le spoglie dell’Emerito che la Provvidenza ha voluto mantenere in vita sino ai 94 anni? Scartata una prima ipotesi da lui vagheggiata (una cripta nel duomo, sotto la tomba in porfido di Guglielmo I il Malo e quella in marmo bianco di Guglielmo II il Buono, gli ultimi re normanni in Sicilia), si era poi accontentato di una tomba sotto la cappella di San Placido: ma da allora sono passati alcuni decenni e tre successori (di altra pasta e con altre concezioni ecclesiologiche). Basterà attendere poche ore per saperlo con certezza.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com



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