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27/02/2016 06:50:00

L'informazione e la mafia: i gattini, i santi, il silenzio...

Pubblichiamo un estratto da "Contro l'Antimafia" di Giacomo Di Girolamo. Il volume, pubblicato da Il Saggiatore, è uscito una settimana fa suscitando un vespaio di polemiche per i toni duri e i contenuti, espressi nella forma originale di una lettera aperta al boss Matteo Messina Denaro. In questo estratto, tratto dal capitolo "Vita da Cronista", si parla dell'invasione di libri sciatti e autoreferenziali sul tema della mafia, sulle carriere dei giornalisti costruiti in nome dell'antimafia, e sul silenzio intorno ai cronisti che raccontano il territorio

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Dal 2000 a oggi, secondo i dati del catalogo del Servizio bibliotecario nazionale, sono usciti 450 libri riconducibili per tema o per soggetto alla mafia. Si tratta, in quindici anni, di una media di trenta libri annui. Vuol dire che c’è una «domanda» di libri sulla mafia, nonostante la crisi del mercato editoriale. E infatti, negli scaffali delle librerie, ormai, i libri sulla mafia fanno catalogo a sé. Tu entri nel reparto saggistica, e ci trovi sempre il reparto: mafia. Ce n’è davvero per tutti i gusti: confessioni, reportage, interviste, monografie, saggi, autobiografie, analisi economiche, pamphlet. I magistrati che raccontano le loro inchieste ai giornalisti, i giornalisti che parafrasano le inchieste dei magistrati, le ordinanze prese come sono e pubblicate, le vite delle vittime della mafia, il reportage su mafia & ambiente, mafia & corruzione, mafia & politica, mafia & racket. Come tira la mafia, in libreria! A volte, poi, escono libri così brutti, che dopo averli sfogliati per qualche minuto mi dico: ma come si fa a pubblicare un libro così? Nessun filtro, nessun rispetto per il lettore, nessun lavoro redazionale. La verità me la suggerì una scaltra libraia di uno sperduto paese siciliano, qualche tempo fa. Aveva in vetrina solo libri di mafia e calendari con i gattini, libri del tipo Il mio gatto, Tutto ciò che devi sapere sul tuo gatto. Io guardavo la vetrina, lei guardava me. Disse: in libreria tutto ciò che ha che fare con la mafia o con i gattini vende. Dovrei scrivere un libro sui gattini assassinati dalla mafia, le dico per scherzare. E lei: vero? Ci sono gattini uccisi dalla mafia? Brrr… meglio non pensarci.

(...)

Il problema è il silenzio.
Perché mentre crescevano a dismisura i libri sulla mafia, paradossalmente, aumentava il silenzio su chi la mafia la racconta davvero (…). La grande sconfitta dell’antimafia è anche questo. Aver costruito una narrazione della mafia che parla solo a un’élite ed è autoreferenziale, con giornalisti che si raccontano le cose tra loro: hai ricevuto il mio libro? Sì, tra un po’ esce il mio. Su cos’è? Non te lo posso dire… anzi… te lo dico, va’: sulla Trattativa. (Tutti i giornalisti antimafia in Italia, da qualche anno a questa parte, hanno un libro in uscita sulla Trattativa). In questa narrazione ci si dimentica di tutto il resto, di chi la mafia la racconta da vicino, del silenzio che c’è intorno (…).

Abbiamo raccontato la mafia semplicemente a chi era pronto ad ascoltarla, per disposizione d’animo, per coinvolgimento emotivo, per obbligo scolastico. Tralasciando tutto il resto. E così abbiamo favorito un clima di silenzio, che si è divorato l’opinione pubblica. E il giornalismo. Il giornalismo non esiste più. Quanta gente viene da me in redazione a raccontarmi un fatto, anche grave, per poi dirmi: ci vorrebbero Le Iene o Striscia la notizia, ne ha i contatti? E io che ci sto a fare, allora? Nulla. Perché non faccio parte dello spettacolo, perché la complessità del ragionamento, del lavoro d’inchiesta, oggi, non ha più spazio, non ha ascolto (…). E allora che devo fare? Io ho il sospetto che non ci siano più parole, per raccontare tutto questo. Le parole non esistono più. Il giornalismo non esiste più. Raccontiamo le cose mentre avvengono, ma spesso ci scordiamo di spiegarle, ancor più spesso di interpretarle. Il giornalismo antimafia, poi, vive anche di ricorrenze. Alla vigilia di ogni 19 luglio o di qualunque altro anniversario è una rincorsa: l’intervista al barbiere di Borsellino, a quello che gli vendeva il pane. Quando Falcone era giudice a Trapani. Parla il primo amore del magistrato antimafia. L’amico del compagno di banco di Peppino Impastato… Un racconto almanaccato della mafia, che a volte sfocia in certi servizi che starebbero bene nelle rubriche della Settimana Enigmistica: «Non tutti sanno che…» o «Spigolature». E il paradosso è che non si parla di mafia, pur essendo la mafia presente quasi ogni giorno sui giornali. Perché è ormai una parola prezzemolo, che rende interessante ogni articolo. Come i gattini nella terza colonna dei principali giornali online (…).


Ogni volta che mi presentano come giornalista antimafia mi sento un impostore. C’è qualcosa di incongruo, come un lezzo di ciarlataneria. E levala ’sta benedetta qualifica, penso: sono giornalista punto, giornalista punto e basta. Non esiste il giornalismo antimafia, e non è giusto che esista, che lo si cerchi. Qual è? È quello dei giornalisti che fanno copia carbone delle ordinanze delle procure, incuranti di masticare vite umane sulla base di informazioni che magari vengono smentite il giorno dopo? Questi non sono giornalisti, sono sensali della notizia. È un’altra cosa.

Vuoi fare carriera? Fatti amico un magistrato, ma non uno da collegio giudicante, che ti frega di quelli: un pm, uno da procura combattente. Ti passerà le carte delle indagini in corso; non potrebbe farlo, ma tu sei un giornalista, ed è il compromesso sul quale si basa la fortuna di molte carriere. Il magistrato ti fa avere le segretissime carte, tu fai da ufficio stampa del magistrato, esalti le sue indagini, i suoi metodi investigativi – ogni due per tre paragoni il suo modo di lavorare al «metodo Falcone» –, lui ti passa verbali di interrogatori prima ancora che siano noti ai diretti interessati, ti anticipa provvedimenti cautelari, brogliacci di intercettazioni top secret. Tu scrivi in anteprima e in esclusiva, detti la linea. Gli altri copieranno, e il caravanserraglio mediatico sarà avviato. Nella migliore delle ipotesi, se la «coppia» funziona, uno farà carriera come magistrato antimafia che fa inchieste che gli altri non fanno – e se dopo due anni si riveleranno tutte dei buchi nell’acqua la colpa sarà, ovviamente, dei «poteri forti» –, mentre il giornalista farà carriera come giornalista antimafia che scrive inchieste che gli altri non scrivono. I due scriveranno un libro insieme, magari, con «scottanti rivelazioni» o il «bilancio di una vita in prima linea». Dal libro nasce l’intervista in televisione, il tour di presentazioni nel paese, a teatro e nelle scuole, e poi da lì, magari, la consulenza per qualche programma d’inchiesta, una fiction, l’idea per un film, o un altro libro, e poi c’è l’emergenza da risolvere, e allora il magistrato diventa commissario, oppure viene candidato; e il giornalista segue questo iter, tra uffici stampa prestigiosi e libri di memorie.

Quanti giornalisti parlano in pubblico di pm, procuratori e magistrati, appellandoli come «il mio amico». Serve a delimitare il territorio, a mettere in chiaro come stanno le cose, a dire: ecco il mio santo. E io penso sempre a quei versi di Vincenzo Caldarelli:

Santi che dai loro tabernacoli
sono sempre fuori a compiere miracoli.