Un avvocato dei Messina Denaro lo annuncia in aula Ma per gli inquirenti potrebbe essere solo una strategia
PALERMO - La famiglia di sangue fa sapere che è morto. Cosa intendano loro per «morto» non è facile capirlo, perché loro sono i Messina Denaro di Castelvetrano e stanno parlando non di un parente qualunque ma proprio di Matteo. Faccenda complicata. Morto morto è un conto, morto vivo un altro.
Morto, potrebbe voler dire che è lontano. Fuori dalla Sicilia e magari per sempre. Oppure morto perché considerato come uno che non merita più niente, che si è messo in disparte di sua volontà o — peggio — per volontà altrui. Come se avesse presentato le dimissioni o fosse stato costretto a darle, nell’uno e nell’altro caso circostanze poco apprezzate in quell’ambiente. Comunque sia, significherà pur qualcosa se la famiglia di sangue comunica al resto del mondo — platealmente, rivolgendosi alla giustizia attraverso l’arringa di un avvocato — che Matteo non c’è più. Una mossa per allentare la tensione investigativa? Un tentativo per far respirare il proprio congiunto, al quale negli ultimi otto anni sono venuti meno un centinaio di fiancheggiatori — tutti arrestati — e tre miliardi di euro di beni sequestrati ai suoi prestanome?
Mistero sempre più profondo quello di Matteo Messina Denaro, fantasma della classe 1962, ricercato numero 1 in Europa, presunto numero 1 o 2 o 3 della Cosa Nostra siciliana a seconda dei sondaggisti del momento, una scheda segnaletica sul bollettino dei wanted del ministero dell’Interno dal giugno del 1993, vecchie foto di famiglia che di tanto in tanto qualcuno trova o fa ritrovare in un covo. Non c’è ministro che entri al Viminale e che, da almeno un decennio, non si presenti ai tg per annunciare — puntualmente dopo ogni retata dalle parti di Trapani — «l’imminente arresto» di Matteo. Mai pervenuto. Per un po’ l’hanno cercato anche con uno di quegli aerei spia della Finanza che pattugliano il Mediterraneo inseguendo barconi e “passeurs”, hanno riempito i rami di ulivo di microtelecamere per filmare tutto quello che si muove intorno alle campagne di Castelvetrano, in questi mesi lo stanno inseguendo almeno in 160, tutti specialisti della caccia, reparti speciali di carabinieri e polizia. In più dicono che si sarebbero aggiunti a loro anche gli uomini dei servizi segreti, che in passato l’hanno tenuto d’occhio e in qualche caso anche avuto con lui un’affettuosa corrispondenza epistolare attraverso amici comuni. Il tramite un proprietario di un cinema del paese, Tonino Vaccarino, che a Castelvetrano prima ha fatto il sindaco, poi il trafficante di stupefacenti, poi ancora su incarico degli 007 e con il nom de plume “Svetonio” ha cominciato a dialogare con Matteo di Kant e di Pennac, di Virgilio e Toni Negri. E anche di Jorge Amado. «Non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica e io sono d’accordo con lui», scriveva Matteo a Vaccarino.
Almeno una volta l’anno si favoleggiano di sue nuove amanti, figli segreti, amici sempre più potenti. Ma di lui non si sente neanche l’odore. Fra i suoi fedelissimi o presunti tali, in molti confessano di averlo avuto vicino ma nessuno l’ha mai incontrato. Tutti dicono di averlo lì sempre a un passo, ma nessuno l’ha mai visto. L’unico che si è vantato di avere scambiato qualche parola con Matteo dal vivo è un ex consigliere comunale di Castelvetrano, tale Lillo “Lillone” Giambalvo, che sproloquiava con un amico raccontandogli di un’improvvisa comparsa in contrada Zangara: «Di primo acchito non l’avevo riconosciuto, era invecchiato. Poi ci siamo baciati, ci siamo abbracciati, ci siamo fatti mezz’ora di pianto tutti e due e poi mi voleva rubare una volpe di quattro chili che avevo nella bisaccia». Surreale.
La verità — e stiamo parlando della verità giudiziaria, quella documentata dagli atti — è che l’ultima volta che qualcuno è sicuramente entrato in contatto con Matteo Messina Denaro risale al 1994. Ventidue anni fa. Un pentito Vincenzo Sinacori, suo inseparabile compagno di omicidi. È stato lui a rivelare i primi e ultimi segreti su Matteo, a descriverne il volto (tutte le altre foto sono ricostruzioni al computer della Scientifica che ha reso “vecchie” le segnaletiche degli antichi fascicoli), a svelare i tratti più intimi del suo carattere. Poi niente. Solo voci, voci su voci più o meno interessate e più o meno attendibili. Ha grossi problemi agli occhi, soffre di reni, ha spesso mal di denti.
Ma quelle più incontrollate insistono sul luogo della sua residenza. Dov’è Matteo? È nella sua Castelvetrano? È in Svizzera? Va e viene da Tunisi? È nascosto in qualche masseria della Sicilia interna? Non lo fanno certo scoprire — e probabilmente neanche lo sanno — i suoi complici Vito Gondola da Mazara del Vallo e Michele Gucciardi da Salemi che parlottano in un casolare e si dicono tutto e il contrario di tutto. Uno: «Ora lui è lì, a Santa Ninfa». L’altro: «Io, è assai che non lo vedo, almeno da vent’anni». È a pochi chilometri o è dall’altra parte del mondo? Dov’è Matteo? Le notizie investigative certe garantiscono che gli ultimi indizi della sua presenza e della sua esistenza in vita risalgono a un anno fa, precisamente all’agosto del 2015. Qualche mese prima, una soffiata consigliava di seguire gli spostamenti di un prete con il quale Matteo «si scambiava saluti» Poi anche il prete è scomparso dalla scena. E a Trapani e nella sua provincia c’è come un vuoto. Avvertito anche da quelli che vengono considerati i più amici di tutti. Si lamentano. Dice uno, intercettato di recente: «Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati. E tu non ti muovi? Ma fai il bordello… svita a tutti… se avete i coglioni… uscite tutti fuori… sennò vi faccio saltare». Dice un altro: «Io sono del parere che qualche giorno, a meno che non l’abbia già fatto, si ritira. E gli altri vanno a fare cose a nome suo».
Se n’è lagnato nel carcere di Opera — con la sua voce registrata dalla famigerata microspia — pure Totò Riina, il vecchio capo: «A me dispiace dirlo questo... questo signor Messina, questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, fa pali per prendere soldi ma non si interessa...». Uno che pensa troppo agli affari suoi e non a quelli di tutti. Parole al vento? Depistaggi? Rimane l’arringa di un avvocato. È di qualche giorno fa, in un’aula della Corte di Appello di Palermo. «Dateci la prova che Matteo Messina Denaro sia vivo e faccia il mafioso a tempo pieno », ha gridato ai giudici Luigi Miceli, legale di Francesco Guttadauro, il figlio di Rosalia, una delle sorelle di Matteo. Dicono che Francesco sia il suo nipote prediletto.
In questo rompicapo mafioso meglio non dimenticarsi quello che disse (proprio a noi di Repubblica) dieci giorni prima della cattura nell’aprile del 2006, il legale storico di Bernardo Provenzano: «Il mio cliente è morto». Morto morto o morto vivo? L’hanno preso subito dopo. Ed erano passati quarantatrè anni di latitanza.
Attilio Bolzoni, Salvo Palazzolo
La Repubblica, 22 ottobre 2016