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20/05/2017 12:29:00

Un ultimo saluto a Chris Cornell, da una periferia dell’impero

Nel giro dei miei amici, i primi a farsi prendere dai Soundgarden erano stati Francesco e Matteo. Ricordo ancora quando, nella mia stanzetta buia a casa dei miei, Francesco mi ha fatto ascoltare il nastro di Badmotorfinger in uno stereo sgarrupato.
Non mi era piaciuto.
Il fatto che non ci fossero assoli di chitarra mi aveva spiazzato. La mia identità, allora, era piuttosto definita, e soprattutto poco disposta ai cambiamenti. Ero il chitarrista di un gruppo di rock progressivo. Il tecnicismo era il mio verbo, e per di più stavo in qualche modo facendo i conti con il mio passato di dipendente dall’heavy metal. Il tutto mi era sembrato una variante appena un po’ più rumorosa dei Black Sabbath. In fondo era così, ma il fatto è che dei Soundgarden non avevo capito assolutamente niente.
Circa un anno dopo quel primo ascolto, mi ritrovo a Parigi, nella reception di un hotel. Era il viaggio di maturità. Io avevo i jeans attillati dentro degli anfibi militari, una camicia a fiori aperta a metà che faceva intravedere una T-shirt dei Metallica e due cinture borchiate. Un adolescente coatto.
Aspettavo qualcuno. Non ricordo bene chi. E sullo schermo c’era lui, Chris Cornell, con le braccia allargate e uno sguardo magnetico. Era il video di Jesus Christ Pose. Stavo cominciando a pensare quanto fosse fico quel pezzo. Poi quel qualcuno era sceso e quel momento di rapimento si era interrotto.
I Soundgarden mi hanno poi preso, per non lasciarmi mai più, cinque anni dopo. Mi trovavo in America. Il motivo ufficiale era che dovevo spendere lì un periodo di borsa di studio post lauream. In realtà stavo tentando – senza riuscirci – di gettarmi alle spalle quattro anni di un amore molesto ed elastico, fatto di continui e logoranti strappi e riprese. Stavo anche tentando di chiudere con l’adolescenza e diventare adulto. Ma non so quanto me ne rendessi conto, allora.


Ero a casa del mio amico Ray. Avevamo messo su un duo. Lui suonava il basso, io la chitarra. Non ricordo più se poi ci siamo esibiti dal vivo una o due volte.
Era comunque il giorno della nostra prima prova e Ray mi aveva fatto ascoltare Ultramega OK. Da quel giorno non ho smesso più: mi sono procurato prima Badmotorfinger, poi Superunknown, poi Louder than Love e poi ancora Down on the Upside, quando avevo scoperto che si erano sciolti. I Soundgarden si erano sciolti all’apice della loro carriera. Ma io non li avrei più lasciati.
Ho consumato tutti i loro CD. Alcuni li ho dovuti acquistare una seconda volta.
Anche Singles l’ho visto qualche anno dopo, assieme alla mia amica Ambra e ad altri amici (Salvatore? Un altro Francesco?). Avevo capito che non si trattava di un capolavoro, ma mi era piaciuto. Non sapevamo ancora – ma avevamo forse intuito – quanto le nostre vite sarebbero somigliate a quelle – sghembe e marginali – dei personaggi di quella storia così ordinaria ambientata nella Seattle del Grunge. Fra quei personaggi c’era Chris Cornell.

Chris è morto. Non se ne è andato giovane, come Kurt Cobain. È sparito a 52 anni, quando il declino, per lui, era già iniziato, quando la sua voce era già rovinata. Per questo non diventerà mai un mito. Non sarà mai come Morrison, mai come Hendrix. Ci ha lasciato un po’ come il protagonista del concept album dei Jethro Tull, e la stampa forse si dimenticherà presto di lui: too old to rockn’n roll, too young to die.

Ma a noi – a me e ai miei amici – in fondo non importa molto della stampa o dei ricordi postumi. Perché per noi i Soundgarden e tutto il movimento che ci stava dietro sono stati davvero importanti. Loro partivano da una oscura città della provincia dell’impero americano, e in fondo anche noi vivevamo in una provincia ancor più marginale dello stesso impero. Tutto era la prova che i margini e le periferie potessero prendersi la loro rivincita. Sentivamo il pulsare della creatività che ci annegava e Strasatti diventava Stra-seattle, Petrosino diventava Petrol-city e Marsala il cuore pulsante dell’onda che stavamo cavalcando. Noi potevamo essere come loro. Nei fine settimana, lasciavamo Palermo, grigia, monotona e sterile, con i suoi localini bene per soli soci, come il Malaluna, e fuggivamo nel centro del vortice, a suonare, a vedere gli altri che suonavano: BraindeaD, Mama Kin, Collettivo Urbano e tanti altri.
I Soundgarden erano al fondo di questo e molto altro. E da quel fondo hanno accompagnato con intensità quella dolorosissima fase di passaggio fra il mondo dei sogni adolescenziali e la vita adulta, e, allo stesso tempo, hanno segnato, simbolicamente, il tentativo di chiudere con gli anni ’80: erano il Black Hole Sun che avrebbe dovuto spazzare via tutto quello che di futile e patinato quegli anni erano stati. Quello che sto tentando di dire è anche che, per molti di noi, i Soundgarden sono stati anche un fatto politico: in una città di provincia come la nostra, erano rabbia pura, voglia distruttiva di cambiamento, di chiusura di conti. Ed erano, soprattutto, una rabbia attiva, radicale, violenta e vitale. Della sacra triade di Seattle, in fondo, erano i miei preferiti: non erano consolatori come i Pearl Jam; non erano disperati come i Nirvana.

Oggi che Chris Cornell è morto non posso non pensare ai miei compagni di ascolto di allora: quarantenni, come me, che hanno creduto che il fervore che ci animava avrebbe potuto cambiare tutto, che, come me, hanno militato in un partito che credevamo ci avrebbe portato alla palingenesi, e che in realtà voleva solo anestetizzare la nostra rabbia, fino a farla sparire, per portare avanti i suoi attivisti più mediocri, arrivisti e calcolatori, quelli che facevano gli scout e non si sforzavano di imparare l’inglese. Ricordo di quando ci dicevano che avremmo dovuto smettere di mostrare i pugni chiusi e alzati, che dovevamo essere moderati nei toni e radicali nella sostanza, mentre invece quella stessa sostanza veniva spolpata dal suo interno. E intanto noi covavamo dentro i Soundgarden.

Alcuni di noi – compagni di ascolti nel giardino del suono – ce l’hanno fatta, altri no. Qualcuno non c’è neanche più. C’è chi ce l’ha fatta, ma senza mai sfondare, senza aver occupato posizioni di primo piano, senza avere in fondo inciso come avremmo sognato. E anche chi ce l’ha fatta si porta dentro come un fardello, un grumo oscuro di insoddisfazione. Tutti comunque siamo accomunati dallo stesso dolore e dalla stessa rabbia sorda di un tempo che covano; caduti in giorni bui, siamo avvolti in una nube, appena percettibile di frustrazione e risentimento. Nei confronti delle promesse non mantenute, nei confronti di chi ci ha tolto la speranza di essere radicali e di segnare il passaggio verso il nuovo, di chi, in definitiva, non ci ha fatto mai veramente uscire dagli anni ‘80. Per noi, i Soundgarden sono stati la colonna sonora di quella parte più dura della nostra vita: hanno rappresentato la voglia violenta di chiudere con il passato e, insieme, la rabbiosa difficoltà che affrontavamo, in questo paese immobile dove il shish si suona, a farlo.
Forse è perché siamo stati animati da quella musica così ostile e aggressiva, ma molti di noi non hanno accettato alcun compromesso: non abbiamo ceduto parte della nostra integrità per fare carriera, non ci siamo mai mescolati, fino in fondo, con il resto dei nostri coetanei imborghesiti; siamo stati solidi fino al punto di romperci e magari rimontarci male – come la voce di Chris, che si è spezzata e poi di nuovo, incerottata, ha cantato, senza più gli acuti, ma con grande passione, nell’ultimo album, quello della reunion, King Animal.
Oggi mi viene da dire che i Soundgarden – in cui Chris Cornell, nostro fratello maggiore, cantava – in fondo sono stati parte di quel rigore morale che ci ha formato e che, nel paese dei compromessi, ci ha ostacolato e rallentato.
Ma un giorno un sole da buco nero verrà e laverà via la pioggia. La nostra rabbia di rocker quarantenni non dovete sottovalutarla!

Pietro Li Causi