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23/05/2017 06:00:00

23 Maggio 1992: l'urlo della voragine

Quando penso alla stagione delle stragi del ‘92, sento di approssimarmi sempre di più al paradosso. Il paradosso di chi si ritrova ad avere memoria di un evento che non ha vissuto, che non ha sofferto né visivamente né acusticamente, ma di cui riuscirebbe a raccontare con nitidezza le macerie dell’esplosione e il boato dello scoppio.

In questi ricordi posticci e posteriori agli eventi, il volto di Palermo sembra irrimediabilmente butterato: un fitto fumo nero esce come secrezione da una piaga coperta da ghirlande, fasce tricolori, targhe, medaglie, dvd di film e serie televisive, cd musicali, lettere a marziani. Se riuscissi a vedere l’abisso di quella voragine, forse scorgerei alcuni resti di una Fiat Croma bianca, ma il cumulo di omaggi che la sormonta è tanto grande da ricoprirla del tutto. Resta solo il fumo a darne traccia.

Venticinque anni fa non ero nemmeno un embrionale amalgama di vita e non-vita, neppure materia di sogno per i miei futuri genitori. Sono nato negli ultimi giorni del 1996, eppure, da quando ho iniziato ad avere coscienza del mio passato, lo svincolo di Capaci e la via D’Amelia hanno assunto la funzione di singolari cenotafi, monumenti funebri privi del corpo morto, costruiti come piramidi con la punta rivolta verso le profondità della terra, là dove la luce è eresia.

Mentre mi raccolgo in queste riflessioni, ritornano in mente dei versi che ripeto a mo’ di litania: Urlano i muri, urlano i lenzuoli:/ “Se un giorno svegliandoti/non vedi il sole,/ è che hanno ucciso il sole/ o eri tu il sole”.* Senza accorgermene mi perdo fra le mille voci che dicono di sapere, di conoscere, di ricordare dove si trovi Via D’Amelio, dove si trovi Capaci, ma quasi appartenessero ad una topografia mitologica, diversa dal reale corpo urbano, quei luoghi danno l’impressione di non esistere davvero, di essere soltanto il nome che si assegna al vessillo di una guerra santa.

All’indomani dell’attentato del 23 maggio lo scrittore palermitano Marcello Benfante decide di riportare la storia di Pasquale Morello: una vita apparentemente tranquilla quella di Morello, nessun accadimento esemplare o scandaloso che possa fare da spartiacque nelle vicende italiane, almeno fino a quando, durante una passeggiata in aperta campagna, non lo investe una voce che grida «Aiuto!».

A rivolgere la richiesta di soccorso è Mattia Sperandeo, precipitato in un cratere da cui gli risulta impossibile uscire. Morello corre nel paese più vicino per rivelare l’esistenza della voragine e dell’uomo intrappolato al suo interno, ma è tutto vano. Le forze dell’ordine non riescono a trovare né la fenditura del terreno né Sperandeo: Morello, il buon samaritano, si trasforma ben presto in un mostro accusato dell’omicidio dell’uomo che chiedeva di salvare.

Il racconto di Benfante, che prenderà il titolo Vorago et vertigo - appena ripubblicato dalla casa editrice il Palindromo nella collana E la mafia sai fa male -, è lucidissima metafora della storia sbagliata di magistrati e uomini dello Stato delegittimati da quelle istituzioni che dovevano salvaguardare il loro operato, acquisire la testimonianza sull’esistenza delle voragini e sull’ormai inesorabile rischio di caderci dentro.

Oggi il problema non sussiste più: tutti credono alle parole di Falcone e Borsellino; tutti sanno che le voragini della mafia si sono aperte e ancora si aprono, l’unico inconveniente è inventarsi qualcosa per non guardare dentro, per non sprofondare noi stessi nell’abisso di quei crepacci. Il cemento non andava bene, troppo vistoso e storicamente utilizzato dalla parte avversa. Meglio la memoria, i ricordi sono facili da modificare, ogni anno - venticinque sono tanti - il passato è sempre più sfocato.

La parola dell’anno è post-verità e mi dicono che il merito sia da attribuire all’ascesa politica di Trump. Mi convince poco, è un concetto troppo familiare… tuttavia non mi interessa adesso, ancora non sono riuscito a trovare la strada giusta e quella litania di prima, unica compagna del mio viaggio, ora ha cambiato strofa: Urlano i muri, urlano i lenzuoli:/ “Falcone vive, Falcone è in noi”./ “Meglio un giorno da Borsellino/ che cent’anni da Ciancimino”*.

MARCO MARINO

 

* [i versi sono tratti da Orazione per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel giorno di San Rocco contenuta in La parola è un rasoio di Salvo Licata, il Palindromo, 2016]



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