Quantcast
×
 
 
12/05/2019 06:00:00

Storia di un crimine fascista

Non solo la mafia, ma anche il fascismo è stato, è, e sempre sarà una montagna di merda. E fra le infinite storie che dimostrano fino alla nausea questa affermazione ne ho scelta oggi una assai poco nota ma esemplare.

Se non la conoscete, leggetela vi prego, perché ha dell'incredibile nella sua efferata crudeltà. E anche perché il suo tema si allaccia a doppio filo con la recentissima, clamorosa vicenda che ha visto protagonista a Torino l'editore neo-nazifascista che pubblica il libro-intervista al ministro dell'Interno: Io sono Matteo Salvini (titolo copiato dal celebre motto: Je suis Catherine Deneuve, ma anche dall'agente 007: My name is Bond, James Bond). Costui – l'editore intendo – un fanatico estremista nero che identifica il Male con l'antifascismo su cui è fondata la nostra Repubblica, dopo essere stato giustamente cacciato via a pedate nel dedré dal Salone del Libro – Salone inaugurato dalla voce altissima di Halina Birenbaum, meravigliosa donna novantenne, sopravvissuta di Auschwitz – ha avuto il coraggio di appellarsi alla “libertà di parola e di pensiero” per ribattere alle accuse di apologia di fascismo che gli erano state rivolte da un gran numero di persone in vario modo coinvolte nella fiera libraria, a cominciare dalla sindaca di Torino Chiara Appendino. Un coraggio mostruoso, nel senso letterale dell'aggettivo.

Ecco allora, in breve sintesi, la storia del martirio che ebbe a subire in epoca fascista un uomo che fu un editore geniale e di grande successo: Angelo Fortunato Formìggini. Angelo (che angelo fu assai, ma fortunato assai meno) era nato a Modena nel 1878. Già durante gli studi liceali aveva dato prova del suo carattere estroso, allegro e ribelle. A ventitré anni si era laureato in Giurisprudenza con una tesi che rivelava  in pieno la sua personalità generosa, aperta e creativa: voleva dimostrare, in sostanza, che gli uomini sono tutti fratelli, che tutti abbiamo un'origine comune, e che in particolare la distinzione tra una “razza ariana” e una “razza semitica” è un semplice mito, del tutto privo di fondamento scientifico.

Un uomo così non poteva non innamorarsi della filosofia, e infatti Angelo dal 1902 s'immerse nello studio del pensiero universale, ricavandone pochi anni dopo una nuova laurea (in Filosofia morale) e una ferma e bizzarra convinzione: che l'essenza segreta del pensiero umano fosse l'umorismo, ossia quella virtù dello spirito che ci consente di cogliere (come Democrito insegnava) l'aspetto profondamente vacuo e quindi ridicolo della nostra esistenza, delle nostre illusioni, di tutto il nostro dannarci e affaccendarci nelle eterne beghe della vita quotidiana.

Ma come dare forma pratica a queste belle idee? A questo sogno di pace, di fratellanza umana, di gioiosità universale? Angelo non ebbe dubbi. In primo luogo aderì alla Massoneria, perché evidentemente attratto dall'originario messaggio teosofico, illuminista e pacifista del Grande Oriente. Poi, nel 1908, fondò una sua piccola casa editrice, la Formìggini appunto, che nel giro di brevissimo tempo prese il volo ed ebbe vasta diffusione con una serie di popolari libri biografici (i famosi “Profili”) e con una collana dedicata ai “Classici del ridere” (Castigat ridendo mores era il suo motto). Il successo fu strepitoso. E andò avanti per decenni, fin dentro l'epoca fascista. Ma qui ebbero inizio i guai. Guai che culminarono nella tragedia.

Fedele al suo carattere pacifico, conciliante e ingenuamente ottimista, Angelo non si sognò nemmeno di opporsi alla dittatura. Senza rinunciare al suo margine di libertà, senza svilire la sua dignità, cercò in tutti i modi di sopravvivere all'onda mortificante del conformismo e della censura. Tentò addirittura di mettere il suo ingegno al servizio del regime, fino al punto di porgere su un vassoio d'argento a Giovanni Gentile – allora presidente dell'Istituto nazionale fascista di cultura – l'idea di creare una grande enciclopedia italiana in 18 volumi. Gentile bocciò il progetto. Per poi rubare l'idea al povero Angelo, e affidarla tale e quale a Giovanni Treccani, che come ben sappiamo la realizzò con tutti i crismi della pompa littoria.

Era solo l'inizio del dramma. Era la seconda metà degli anni Venti. Il fascismo entrava nella sua fase trionfale, e il nostro povero Angelo, pur continuando a mietere successi editoriali, cominciava a cadere nella fatale disgrazia. E perché fatale? Perché era ebreo. Tutto qua. Nient'altro. Era semplicemente di famiglia ebraica. E allora non contava nulla di nulla il fatto di essere sempre stato un cittadino esemplare, un imprenditore geniale, uno che nel 1914 si era offerto volontario per andare al fronte, uno che non si era mai compromesso con l'opposizione al regime. Dopo essere stato vigliaccamente defraudato della sua idea più grande, quella dell'enciclopedia, Angelo fu messo ai margini, ostracizzato, indicato al sospetto, sempre di più, fino a quando, nel 1938, con la promulgazione delle criminali leggi razziali, tutto il suo lavoro, il frutto della sua vita fu distrutto, mandato in fumo in un colpo solo. E fu la fine di tutto.

Angelo non resse al colpo. In quello stesso anno, il 29 di novembre, dopo aver chiuso a Roma la sede della sua casa editrice, prese un treno e tornò a Modena, la sua città natale. Salì in cima alla torre del Duomo, e si uccise lanciandosi nel vuoto. Prima di compiere il suicidio si era riempito una tasca di denaro, per dimostrare che non si uccideva per mancanza di soldi. In un'altra tasca aveva messo dei messaggi destinati al Re e a Mussolini. I quali ovviamente nemmeno li degnarono di uno sguardo.

A degnarsi della sua fine fu invece il famigerato Achille Starace, il segretario del Fascio. Quando gli comunicarono la notizia della fine dell'editore Formiggini, commentò sarcastico e lapidario: “È morto da vero ebreo: si è gettato dalla torre per risparmiare un proiettile di pistola”. Questa fu la fine che il fascismo destinò a un grande editore che non aveva avuto nemmeno la “colpa” di opporsi al regime.

 

Selinos