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08/01/2021 06:00:00

Sciascia 2021. Come chiudere una pratica sconveniente

di Marcello Benfante

Si è appena spenta l’eco, a tratti solennemente fastidiosa, del trentennale della morte di Leonardo Sciascia, con i suoi pomposi riti funebri e accademici, la sua enfatica kermesse, e già si avverte nell’aria il petulante frastuono dell’onda mediatica-editoriale suscitata dalle celebrazioni corali per il centenario della nascita del grande scrittore siciliano.

È forse ingeneroso lamentarsi di un’attenzione certamente dovuta e sacrosanta. Ma è difficile non dispiacersene per certe note false e garrule, tanto più stridule quanto più desiderose di sovrastare le altre voci in un gran coro consenziente.

Improvvisamente, quasi come per un allineamento astrale, tutti concordano con il sentire acutissimo e tagliente di Sciascia. Quello che in vita è stato un intellettuale conflittuale, capace di spaccare il paese con le sue polemiche, le sue aspre verità, il suo rigore, le sue intransigenze, trent’anni dopo la morte appare (ma ovviamente non è, non può essere) come un grande conciliatore politico-culturale sotto la cui egida si compone un’unità etica ed estetica che francamente ci lascia un po’ perplessi.

Non che il paese o la sua intellighenzia si siano radicalizzate e disintossicate fino al punto di aver assunto e fatto proprie le idee sciasciane, così scandalosamente e irredimibilmente aliene. In così unanime consenso c’è ovviamente una buona dose di ipocrisia e di retorica o, nel migliore dei casi, di superficialità.

Ma c’è pure una strategia (culturale, editoriale, politica) di neutralizzazione dell’alterità di Sciascia, della sua diversità irriducibile. Nel trentennale della morte si è inteso erigere a Sciascia un mausoleo di parole. Per il centenario della nascita si vuole addirittura cambiare i connotati alla salma.

E soprattutto sottoporre la memoria sciasciana a un sistema revisionista di correzioni, di aggiustamenti, di maquillage che la rendano più accettabile, più condivisibile, più assimilabile. Come dire, più omologabile.

Lo Sciascia riesumato e ricomposto con modalità frankensteiniane in questa mistificante operazione di rettifica è uno scrittore nazional-popolare, nel senso più frustro dell’espressione, un autore di gialli, ancorché innovativi e speziati da un generico impegno sociale, un illuminista (ma di un malinteso illuminismo ridotto a placido buon senso se non a ragionevolezza borghese), un autore dalla prosa semplice, chiara e diretta, priva di mistero e di oltranza, quasi senza stile, senza problematicità, senza inquietudini ed ossessioni.

La tendenza pare quella, piuttosto insolente, di insistere soprattutto su ciò che Sciascia non era, non in maniera assoluta almeno, e diceva perentoriamente di non essere, di non voler essere: un intellettuale e per di più un intellettuale isolano, un mafiologo, un narratore di misteri polizieschi piuttosto che di enigmi filosofici, un erudito e un bibliofilo provinciale, piuttosto che il custode di una biblioteca borgesiana.

Si moltiplicano allora gli omaggi folcloristici, pittoreschi, le curiosità aneddotiche, gli articoli e i libri in cui si chiacchiera delle virtù gastronomiche di Sciascia o delle più curiose e marginali questioni: non tanto per un gusto minimalista del particolare bizzarro, quanto piuttosto in base a un progetto, più o meno consapevole, di ridimensionamento dell’autore di tante solitarie battaglie civili.

Ne vien fuori uno Sciascia rimpicciolito, semplificato, quando non facilitato e banalizzato addirittura. Uno Sciascia buono per tutti gli usi, socializzato (ossia privatizzato, per meglio dire) e ridotto a patrimonio folclorico al quale attingere acriticamente, senza una vera consapevolezza. A ciascuno il suo Sciascia, pare essere il motto di questo nuovo approccio disinvolto. Esortazione per un verso fin troppo ovvia, essendo riferita a un classico, per sua natura aperto a infinite (o quasi) analisi interpretative, ma per l’altro fin troppo sfrontata e demolitrice: una specie di sguaiato “de gustibus non est disputandum” dietro cui fa capolino Totò in chiave parodica.
Al buffet del centenario, insomma, ciascuno si serva da sé e degusti quel che gli pare, come gli pare, quanto gli pare. Di Sciascia l’industria culturale, complici le grandi testate giornalistiche, ha fatto un prodotto commestibile da asporto, una specie di street food, una pietanza appetitosa di cucina regionale, da divorare distrattamente senza porsi troppe né troppo grandi questioni.

I nemici di ieri, come giustamente sottolineava Antonio Di Grado, partecipano attivamente e in prima linea a questo carnevalesco e mascherato comitato dei festeggiamenti, il cui scopo sembra essere non tanto la rivitalizzazione di un autore irrimediabilmente scomodo, ma al contrario la sua definitiva archiviazione e tumulazione in uno spettacolare e pirotecnico famedio. Dove possa giacere altri cent’anni senza disturbare il sonno riconciliato della ragione.



Native | 2024-04-25 09:00:00
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