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26/05/2022 06:00:00

 Giovanni Falcone: “Perché ho deciso di lasciare la Procura di Palermo”

Pubblichiamo il testo dell'ultima intervista di Giovanni Falcone, rilasciato al Pungolo, periodico dei giovani siciliani, e pubblicata nel Maggio 1992. Di questa intervista ritrovata parliamo qui. 

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Quasi due morti al giorno. Continua la guerra, in Sicilia. Una regione che vive da decenni tra delitti, prevaricazioni, sete di giustizia, voglia di riscatto e di futuro. I risultati, sul fronte giudiziario, restano ben scarsi, nono stante l'impegno di gran parte dei magistrati e degli inquirenti, molti dei quali manifestano parecchi dubbi e perplessità sul nuovo codice di procedura penale e sui provvedimenti voluti dal Governo per contrastare il crimine organizzato. A favore della Superprocura antimafia si è schierato invece il giudice Giovanni Falcone, convinto assertore dell'estensione dell'esempio del lavoro d'equipe «inventato» a Palermo dal pool antimafia.
L'opinione pubblica è da mesi spaccata sul «caso Falcone», sul significato da attribuire al trasferimento a Roma del giudice che negli anni '80 è divenuto un vero e proprio simbolo della lotta alla mafia ed il principale riferimento per gli altri magistrati. Il suo arrivo alla Dire-zione Generale degli Affari Penali al Ministero di Grazia e Giustizia è stato considerato da molti come l'ultima conferma del fatto che un ciclo giudiziario si è chiuso. Definitivamente.
In questa intervista, che rilasciata in esclusiva a “Il Pungolo”, Giovanni Falcone racconta le ragioni che lo hanno spinto a lasciare la Sicilia ed esprime con grande chiarezza il suo punto di vista sui compiti dello Stato nella lotta al crimine organizzalo.

«ll mio trasferimento a Roma - ci dice Giovanni Falcone - coincide con un momento in cui ho ritenuto più utile proseguire nella capitale la mia attività. Il lavoro che facevo ormai a Palermo, per certi aspetti, mi sembrava meno proficuo di quello che avrei potuto svolgere al Ministero di Grazia e Giustizia». Alcuni magistrati siciliani si sono sentiti traditi, qualcuno dice «Falcone adesso sta dall'altra parte. «Sono difetti di analisi della situazione. Pensare che io stia dall'altra parte spero non significhi ritenere che io stia dalla parte della mafia».

Questo è escluso.
«Lo spero almeno, in questo Paese ci si può aspettare di tutto. lo non condivido questo distinguere fra parte magistratura e parte potere politico. Sono indubbiamente parti diverse, ma non possono e non devono essere armate l'una contro l'altra, perché da ciò si ricava soltanto l'immobilismo più assoluto».

Ma è più difficile lavorare a Roma o a Palermo?
«E abbastanza difficile in entrambi i posti».

A Palermo Giovanni Falcone era considerato un giudice di trincea, un vero e proprio simbolo nella lotta alla mafia. Oggi lei è direttore generale del Ministero di Grazia e Giustizia.
«lo credo che siano fondamentali, per un esercito, sia le truppe che stanno in trincea sia lo stato maggiore che elabora strategie e tattiche. In qualsiasi esercito c'è la prima linea, ma anche il quartiere generale: credo che siano ugualmente importanti entrambi».

Da cosa nasce la diffidenza della prima linea verso il quartier generale?
«In qualsiasi esercito c'è la diffidenza, questo stesso atteggiamento di sospetto della prima linea rispetto al quartier generale e di distacco del quartier generale rispetto alla prima linea. Probabilmente sarebbe necessaria una via di mezzo per andare avanti e vincere la guerra».

Qual è il suo giudizio su quest'ultimo decennio? Che cos 'è cambiato, sul fronte della lotta al crimine organizzato in Sicilia, dagli inizi degli anni '80 ad oggi?
«È cambiata innanzitutto la consapevolezza della gente. Credo che ad una sorta di antico, tacito rispetto delle regole del gioco sia subentrata una situazione di conflittualità, a volte sorda, a volte palese; oggi, per la mafia, la Sicilia non è più il cortile di casa sua. Vi è pure una maggiore conoscenza del fenomeno da parte degli organismi preposti alla repressione, ma bisogna anche dire che nel contempo la pericolosità della mafia si è enormemente accresciuta rispetto agli inizi degli anni '80».

È stata dura la polemica tra lei ed altri magistrati siciliani in merito all'istituzione della DIA e della DNA.
«Personalmente sono convinto che se non si arriva ad un insieme armonico e coordinato delle indagini si otterrà ben poco. Per questo sono favorevole agli ultimi provvedimenti governativi. Spesso si dimentica che non proveniamo da un precedente sistema giudiziario pieno di successi folgoranti contro la mafia a cui sta per seguirne un altro che produrrà sicuramente insuccessi clamorosi. Eravamo dinanzi ad un sistema giudiziario da tempo ormai inagibile e impraticabile che oggi si sta cercando di razionalizzare e rendere più consono ad un ordinamento democratico».

L'Associazione Nazionale Magistrati ha parlato di attentato all'indipendenza del giudice.

«Credo che non si possa in alcun modo parlare di pericolo per l'indipendenza del giudice e per l'autonomia della magistratura: sono delle preoccupazioni assolutamente in. fondate».

Nonostante i magistrati italiani non fossero ancora preparati a un cambiamento così radicale, secondo lei rimane dunque positivo il fatto che sia entrato in vigore il nuovo Codice?
«Per me è assolutamente positivo, Capisco che non sia comprensibile per qualunque persona abituata a lavorare in una determinata maniera chiederle improvvisamente di cambiare totalmente mentalità, abitudini di lavoro, rapporti con la PG. È stata una rivoluzione copernicana. Non si poteva pensare che tutto ciò avvenisse in maniera indolore, anzi mi meraviglio che non sia accaduto di peggio».

Qualcuno le contesta di aver negato l'esistenza di un terzo livello della mafia. Qualcun altro l'accusa di aver fatto marcia indietro.
«La questione del terzo livello è una singolare e strumentale cattiva interpretazione di quello che io ho detto in passato. Il terzo livello non solo non esiste, ma non è stato mai da me ipotizzato. Se per terzo livello intendiamo una sorta di organizza-zione che si trova al di sopra degli organismi di vertice di Cosa Nostra, composta da politici e imprenditori, creiamo una trama per un film tipo «La Piovra». Finiremmo con il creare la Spectre di Fleming. La realtà è molto più grave, molto più complessa. È peggiore: negare l'esistenza del terzo livello significa infatti affermare - conclude Giovanni Falcone che comanda Cosa Nostra e non gli uomini politici. Questo, sfido chiunque a dimostrare il contrario, mi sembra molto più grave».

PIETRO VENTO