La settima appena trascorsa, e in una sera densa di comunicati tra la Francia e l’Italia a proposito di navi ONG e il loro carico (smettiamola fin da subito di aggiungere “di disperazione o altre amenità retoriche”, tutto questo ha sollecitato una delle pieghe del mio cervello e via andare tra le fotografie di Alfredo D’Amato che fu tra i primi a salire su navi nella Marina Militare ai tempi della missione Mare nostrum qualche anno addietro, e un libro di Susan Sontag_Davanti al dolore degli altri. Fotografia che racconta in sottrazione per obbligo e per forma, la Signora Sontag che in questo saggio del 2003 ci apre un mondo di fronte all’assuefazione o meno del dolore con tanta informazione tanta fotografia tante parole spese.
Cosa accade davanti alla rappresentazione del dolore degli altri? È possibile riprodurlo? Non c’è il rischio di voyeurismo? E oltre, noi e gli altri, oggi sembra che i nostri confini siano da difendere per mandato elettorale: chi è l’altro che tanto sembra che si debba temere? Possiamo derogare alla pietas e via di parole nonsense e piene di violenza?
“nessuno può pensare e al tempo stesso colpire un altro essere vivente” (S.S.)
Credo come tanti, il giorno che ho letto dei primi controlli preventivi a bordo delle navi a Catania, restare basiti per certi termini è stato un corto circuito: sbarchi selettivi, e carico residuale per quelli che restavano a bordo.
Chiedo perché tanta freddezza e tanto distacco, ieri poi parlando con una mia amica che cura per Radio Rai 3 una trasmissione sulle parole e sulla lingua, mi faceva notare che spesso questa terminologia derivi direttamente da trattati internazionali che de facto non brillano per prosa. E sempre per avere altri punti di vista altre visioni, ho letto una nota di Nadia Urbinati e qui la cosa si complica assai, perché la professoressa nel suo contributo arriva a mettere sullo stesso piano La banalità del male di Hannah Arendt e il reportage su quanto avvenne dentro il tribunale durante il processo ad Eichmann, con il burocratese utilizzato dal nostro Governo. Lessi questo libro tempo addietro, e ciò che mi colpì di questa corrispondenza allora per il New Yorker fu esattamente il linguaggio che un “assassino da scrivania” utilizzava nelle sue comunicazioni riguardo ai treni ai tempi di percorrenza e all’ottimizzare i processi per far sì che tutto si traducesse in una perfetta macchina per uccidere. Il carico umano, semplicemente non c’era nelle sue scartoffie da burocrate.
Il linguaggio, le parole.
A volte ti può annichilire un solo segno di interpunzione (è la ricchezza della nostra lingua) immaginate una parola o più parole fuori contesto, utilizzate per uso costante e quotidiano. Le persone diventano numeri, pratiche da risolvere senza se e senza ma, e tu nota del Viminale diventi Caronte per anime perse.
Ma l’Italia, è paese fondatore dell’UE, l’Italia è al centro di ogni passaggio fondamentale della vita di questa Europa e forse qualche cautela (non dico politica, ma lessicale) doveva essere presa, ma tale è stata la risposta che ci troviamo oggi a discutere non di bimbi come i nostri figli, madri padri nonni ma di parole mal messe. Fatico a mettere in ordine i pensieri, l’emozione è tanta e non riesco ad andare dietro a quel politico che piomba sulla notizia preda - ma come ha detto qualcuno di recente “toglietegli i social” - per seminare altro odio.
Si può raccontare il dolore? Si se lo fai con coscienza e senza pregiudizi, e ieri a Propaganda live, un servizio di Diego Bianchi salito a bordo della Geo Barents di Medici Senza Frontiere, oltre un’ora e venti di reportage. Inizia con lo scherzo, con la battuta, le storie gli sbattono addosso una volta a bordo - adesso si un carico di umanità in sprezzo al senso comune del sostantivo - violato nei campi in Libia, violato nell’attesa di uno sbarco selettivo - adesso è ascoltato e i racconti diventano storie, e dove non puoi mettere il distacco tra te e loro.
La legge del mare non ammette tutto questo, si salva. In banchina i naufraghi, poi si ragiona. Quando siamo diventati così disumani? Prendo le distanze, quando sono diventati così freddi algidi i calcoli di certa politica?
Tutto si stava per chiudere, come ci fa notare l’autore del servizio, pronto a sbarcare lui e arriva la notizia dell’imminente attracco in porto e cosi viviamo quasi in presa diretta cos’è la selezione e il carico residuo poi. In studio a fine servizio solo silenzio, lui Diego, ha trattenuto le lacrime nel rivedersi io da spettatore no.
Mi ha colpito un bimbo durante il racconto “quella è l’Italia?” indicando la costa, io guardavo i suoi occhi. Noi siamo porto, salvezza. Noi Italia siamo il nuovo mondo per chi arriva e fa male apparire diversamente agli occhi di una parte di loro.
Dovremmo dire siamo tutti carico residuale? Quanto tristezza che si somma a tanto calcolo. E siamo solo all’inizio di questo viaggio credo
giuseppe prode
p.s. caro lettore, se avrai letto queste poche righe, ti suggerisco un brano a proposito di gente del sud. All’indomani di un comizio a Napoli di un politico del nord, ricordo alla Mostra d’Oltremare, un nutrito carico di musicisti per tramite di una cosa che non conosce confini_le note e la melodia_ hanno inciso quest’opera corale, che trovo tra le più alte scritte in questi ultimi anni sul tema.
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