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14/01/2023 06:00:00

Strage di Alcamo: le indagini bluff della Procura di Trapani 

 Può un’inchiesta giudiziaria rimanere aperta per 12 anni senza che venga svolta alcuna significativa indagine? La risposta è sì: è successo a Trapani e non su un reato qualsiasi ma su uno dei più misteriosi cold case italiani, il duplice omicidio di due carabinieri – Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo– avvenuto la notte tra il 26 e il 27 gennaio 1976 all’interno della caserma di Alcamo Marina. Se ciò non bastasse, a rendere tutto ancora più profondo e spaventoso in questa storia si parla di depositi di materiale fissile e armi (che nessuno ha mai voluto cercare), risultano manomesse le trascrizioni delle intercettazioni ed emerge il nome di un giudice che avrebbe chiuso un’inchiesta per torture su richiesta di alti ufficiali dei Carabinieri. Questo è, per titoli, ciò che emerge da un’indagine della disciolta commissione Antimafia sull’eccidio del 1976.

Per la potenza dei depistaggi, i collegamenti con altri delitti, quelli di Impastato e Rostagno ma non solo, il caso Alkamar entra di diritto nell’armadio dei segreti della Repubblica disegnando una voragine senza fondo. Un segreto funzionale che solo in parte l’Antimafia ha rimosso. I confini visibili di questa voragine sono racchiusi nella storia di uno dei più gravi errori giudiziari: per la morte dei due carabinieri sono state condannate all’ergastolo quattro persone, mentre una quinta, il loro accusatore, muore in carcere in circostanze mai spiegate dopo aver ritrattato. Tutti sono stati pesantemente torturati per ottenere un falsa confessione. Dei quattro innocenti finiti nel tritacarne uno morirà dietro le sbarre, un secondo ci rimarrà 22 anni e gli ultimi due dovranno inventarsi una vita da latitanti per sfuggire alla cattura. Ci vorranno 36 anni e ben tre sentenze di revisione perché vengano scagionati da ogni accusa: l’errore giudiziario che ha bruciato le vite di quattro persone è costato allo Stato una decina di milioni per i risarcimenti.

Nel 2008, dopo l’emersione degli abusi, a Trapani si aprono due nuove inchieste: una sull’eccidio del gennaio ‘76 e una sulle torture: chi le ha commesse e con quale obiettivo? Vecchie storie si dirà. Ma in realtà non è così. Nulla è più attuale e utile di una inchiesta archiviata per raccontare lo stato della giustizia in Italia, altro che riforma Cartabia. Nel gennaio 2020 l’inchiesta sul duplice omicidio viene chiusa con queste parole: «Rilevato che nell’ultimo decennio non sono stati compiuti atti istruttori e conseguentemente non sono emerse ipotesi investigative apprezzabili e degne di ulteriori approfondimenti, né in relazione alla individuazione degli autori della strage di Alcamo, […] chiede disporsi l’archiviazione del procedimento […]». A firmare la richiesta è un giovane magistrato, Maurizio Agnello procuratore aggiunto a Trapani.

La stampa locale solitamente assai solerte nel beatificare ogni mollica lanciata dagli uffici delle procure questa volta tace. Nel 2022 la commissione Antimafia ha riaperto i faldoni dell’inchiesta trapanese e le sorprese non mancano: la quasi totalità dei documenti rimandano all’inchiesta precedente, quella del ’76, terremotata come abbiamo detto da ben tre sentenze di revisione e falsata da una serie infinita di atti illegittimi, sparizioni di reperti e torture agli indagati per farli confessare. Sono solo quattro le deleghe alla polizia giudiziaria presenti nel fascicolo del Pm titolare Andrea Tarondo, il teste chiave viene interrogato solo una volta, nemmeno l’ombra di altri interrogatori o ulteriori indagini, non compaiono nemmeno le perizie autoptiche sulle vittime e l’ultimo interrogatorio è del 2009. Dodici anni di vuoto. Alkamar fa davvero storia a sé: di solito le intercettazioni vengono usate per creare un climax favorevole all’indagine anche se i fatti reali sono scarsi o inesistenti. Qui, al contrario, le intercettazioni sono dimenticate, inutilizzate e in almeno un caso manipolate. Ecco come.

L’intercettazione manipolata

È il 5 settembre 2008. Uno dei carabinieri indagato per le torture, Giuseppe Scibilia, viene intercettato al telefono con un suo ex-collega, Diego Genna. Parlano proprio degli abusi: non c’è una trascrizione, solo una sintesi della polizia giudiziaria delegata alle indagini. Genna spiega “come si fosse occupato di detta pratica per incarico ricevuto dal Col. Russo e che la stessa era stata assegnata al Giudice Istruttore Leonardi. Ricordava come quest’ultimo, suo compaesano, lo avesse tranquillizzato dicendogli che “la legge per gli amici si interpreta e per gli altri si applica”. E che quindi poteva rassicurare i suoi superiori. Indagine archiviata e avocata all’epoca dei fatti dalla Procura generale”.

Russo, ucciso da un commando mafioso nell’agosto del ’77, è l’ufficiale a capo del dispositivo che si macchia delle torture, degli abusi e dei falsi verbali. I reati che il carabiniere Genna descrive sono molto gravi ma incomprensibilmente né lui né il giudice Leonardi, quello che avrebbe “interpretato la legge per gli amici e l’avrebbe applicata per tutti gli altri”, permettendo che si spalancassero le porte dell’ergastolo per quattro innocenti, vengono identificati: il militare e il giudice scompaiono dai radar dell’inchiesta.

C’è di più.
Dal testo fornito al Pm, e quindi anche alle parti lese, scompare un nome di un altro alto ufficiale che avrebbe agito sul giudice Leonardi per far chiudere l’inchiesta sulle torture, un nome che risulta ben chiaro nel nastro dell’intercettazione: è quello del generale, oggi in pensione, Antonio Subranni. Ecco la trascrizione dell’audio inedito perché manipolato: «Ma questa pratica – la voce è quella di Genna [n.d.r.] io per anni inizialmente per incarico della buonanima del colonnello Russo, poi insomma di Subranni, eccetera eccetera, poi [parola poco comprensibile, sembra “andai”] dal giudice istruttore Leonardi, il quale Leonardi, quando io ogni tanto, ogni mese, quando scrivevano, volevano notizie mi diceva ogni tanto, “Genna, non ti preoccupare, io di origine marsalese sono”, avevamo un ottimo rapporto, mi dice, “Genna, stai tranquillo, gli dici ai tuoi superiori che la legge per gli amici si interpreta per gli altri si applica».

Tra migliaia di conversazioni possibile che questa sia l’unica “manipolata”, ci sono altri nomi che non finiscono agli atti? Domande senza risposte, l’Antimafia ha ottenuto i nastri ma una totale discovery non è stata compiuta, la fine della legislatura e lo scioglimento della Commissione hanno chiuso l’indagine. Ma sopratutto cosa c’entra il generale Subranni, al tempo maggiore e stretto collaboratore di Russo, posto che non c’è un solo atto di indagine a sua firma nel caso di Alcamo Marina? Uno strano incrocio: il nome dell’ufficiale l’anno dopo finirà nel registro degli indagati per episodi di depistaggio nell’omicidio di Giuseppe Impastato. A casa dell’attivista, subito dopo l’omicidio, furono illegalmente sequestrati una serie di documenti tra i quali una carpetta dal titolo “strage di Alcamo Marina”, un compendio dell’attività di contro-informazione sulla vicenda. Testimonianze e documenti puntano il dito sull’ufficiale: fu Subranni a ordinare quel “sequestro informale” ma il reato era prescritto, il fascicolo finì in archivio.

La carpetta di Impastato sparisce, nessuno oggi sa dove sia finita. A 32 anni di distanza dall’eccidio si rimette, quindi, in moto un meccanismo, una catena di comando che dalla Questura di Trapani decide di manipolare e far sparire un nome (solo uno?) dal rapporto alla Procura. Dove però nessuno se ne accorge perché evidentemente le intercettazioni non vengono ascoltate.
Ci sono altre due nastri “dimenticati”. Uno proviene dal cuore delle investigazioni, di quel dispositivo messo a punto per torturare e consegnare ai tribunali una falsa verità. A parlare questa volta è il figlio di Giovanni Provenzano tra gli indagati per gli abusi, anche lui carabiniere: in una lunga conversazione con la sorella del 13 settembre 2008 non solo ammette le torture e i falsi compiuti a danno degli arrestati ma afferma, “i due carabinieri furono sequestrati e poi uccisi”. Una rivelazione, un dato del tutto nuovo perché come attestano le perizie le due vittime furono uccise nel sonno. Anche qui, come in precedenza, il Pm Tarondo non chiama a testimoniare il teste. E tutto tace anche quando Scibilia e il solito Genna il 18 settembre 2008 parlano della strage. In questo contesto Scibilia chiede all’ex-collega, “…ma tu a La Colla lo conosci o no?…”.

E qui si dovrebbe aprire una prima voragine. La Colla è un nome pesante nelle vicende criminali trapanesi, un file che oggi è finito sotto i riflettori della Procura di Firenze per l’ennesima tranche dell’inchiesta sulle bombe del 1993. Perché si tratta di un carabiniere che nel settembre di quello stesso anno venne arrestato (e poi condannato) con l’accusa di gestire un’arsenale di armi e munizioni da guerra in quella che è la Corleone del trapanese, vale a dire Alcamo a pochi chilometri dal luogo dell’eccidio del ’76. Gli investigatori, Polizia e Procura, che hanno gestito quelle indagini, non possono non sapere chi è La Colla, eppure tutto tace. Pochi mesi dopo il teste principale dell’inchiesta sull’eccidio, un poliziotto di Alcamo, viene interrogato e stabilisce una correlazione tra l’arsenale del ’93 e i fatti del ’76. Calma piatta. La Colla non viene identificato, nessuno chiede ai due ex-carabinieri cosa c’entri nella storia di Alcamo Marina. In pochi mesi il fascicolo sulle torture viene chiuso, è passato troppo tempo. Dodici anni dopo, nel 2020, l’inchiesta rimasta al punto zero viene chiusa con le parole durissime del procuratore Agnello. Nessuna riforma Cartabia riuscirebbe a sanare la ferita di un’inchiesta tenuta aperta per 12 anni senza alcuna attività di investigativa.

Il niet al Parlamento
Incredibilmente la storia si ripete nel 2022: l’indagine dell’Antimafia sbatte contro il muro di un’inchiesta vuota, altre manipolazioni e nuovi segreti. Ma questa volta c’è un unicum, qualcosa di mai successo nel corso di un’indagine parlamentare: i comandi territoriali dei carabinieri in Sicilia coinvolti nelle indagini e nei depistaggi non rispondono all’Antimafia. Il Comando Generale dell’Arma chiede più volte di far entrare i consulenti negli archivi e mettere a disposizione la documentazione ma la risposta è il silenzio: certi armadi devono rimanere chiusi, la Commissione, e quindi il Parlamento, non può entrarci. Il segreto di Stato non può essere opposto a un’indagine parlamentare ma in questo pezzo di Sicilia per l’eccidio di Alkamar non conosce limiti. Perché? Ma soprattutto è ammissibile una tale menomazione dei poteri ispettivi del Parlamento?

Nicola Biondo, Il Riformista (qui il link all'articolo)