Perché la Cassazione ha confermato la confisca dei beni a Michele Licata
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Nei giorni scorsi, su Tp24, abbiamo raccontato come la Cassazione abbia messo la parola fine alla lunga vicenda del maxi sequestro degli alberghi e dei ristoranti del marsalese Michele Licata: 127 milioni di euro.
Il provvedimento riguarda ristoranti, alberghi, auto, terreni, conti bancari al centro dell’intervento della Cassazione che ha respinto il ricorso dell’imprenditore e dei suoi familiari contro la sentenza della Corte d’appello di Palermo, che, tranne che per alcuni beni della moglie, aveva confermato la confisca.
Dato che in tanti si sono interessati alla vicenda, è interessante leggere anche le motivazioni con cui la Corte di Cassazione ha confermato la confisca dell’impero economico di Michele Licata.
La Suprema Corte, sottolineando che il ricorso al terzo grado di giustizia “è ammesso soltanto per violazione di legge”, evidenzia che i legali della difesa (Carlo Ferracane e Salvatore Pino) “tendono ad una rivalutazione del merito”. Aggiungendo, poi, che “la piattaforma valutata in sede di prevenzione è coincidente con quella alla base del procedimento penale che ha visto il Licata imputato per i delitti di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, indebita compensazione di debiti tributari, commessi negli anni tra il 2008 e il 2013 nell'esercizio delle attività riferibili alle società Delfino srl, Roof Garden srl, Delfino Ricevimenti, Rubi srl, truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, conclusosi con la declaratoria di prescrizione in relazione alle fattispecie consumate fino al 2010 e con la condanna del prevenuto per i residui addebiti (ad eccezione della malversazione per cui già in primo grado il proposto era intervenuta assoluzione)”. La difesa, continuano i giudici della Cassazione, “non propone censure in punto di pericolosità generica ma esclusivamente in ordine al quantum del profitto confiscabile e ai criteri della sua determinazione”. Ma la Corte d'Appello, proseguono i giudici romani, “ha argomentato sulla scorta dei dati emergenti dall'elaborato peritale acquisito in atti l'incapienza economico-finanziaria del Licata nel periodo di manifestata pericolosità sociale (2008-2015), precisando, altresì, che siffatta situazione risulta documentata fin dagli anni 90, circostanza che impone di escludere che le somme investite dal proposto nel periodo di pericolosità potessero essere state lecitamente accumulate negli anni precedenti. Il decreto impugnato ha, in particolare, indicato una disponibilità complessiva negli anni in questione ammontante ad euro 215.142,36 (redditi leciti meno spese familiari) a fronte di versamenti in contanti sui conti del proposto e dei familiari pari ad euro 7.017.898,91.
I riferimenti della Corte alle ingenti movimentazioni di contanti anche attraverso operazioni extraconto (cambio assegni) e all'alterazione del libero mercato per effetto del reclutamento di numerosi piccoli imprenditori della zona che operavano per il Licata con introiti assai modesti risultano effettuati nell'ambito della valutazione della pericolosità e non, come sostiene la difesa, indebitamente inseriti nel giudizio di sproporzione e di preminenza ai fini della confisca. Quanto all'importo di euro 13.184.888,32, pari ai pagamenti effettuati dalle società del gruppo a fornitori fittizi, i giudici territoriali hanno fornito risposta ai rilievi difensivi argomentando circa la derivazione illecita delle somme apparentemente utilizzate per i pagamenti donde l'irrilevanza della successiva reimmissione nel circuito societario, valutazione questa già espressa anche dal Tribunale laddove ha evidenziato che il Licata ha sempre considerato le società, i loro beni e rispettivi patrimoni e quello suo personale e dei familiari "un unicum indistinto" e ha utilizzato le attività imprenditoriali anche con modalità illecite per accumulare ingenti quantità di risorse in parte distratte a proprio beneficio e in parte reimmesse nel circuito aziendale, senza che tuttavia siffatte movimentazioni valgano a giustificare le disponibilità finanziarie originarie. Con riguardo alla regolarizzazione delle pendenze fiscali mediante procedure conciliative il decreto ha chiarito che il pagamento delle imposte evase è avvenuto ad iniziativa dell'amministratore giudiziario dopo il sequestro dei beni”. I giudici territoriali, si continua nelle motivazioni della Cassazione, “hanno, inoltre, esposto le ragioni per cui i finanziamenti da parte dei soci e i versamenti effettuati in conto aumento capitale nei confronti di società del gruppo non possono considerarsi apporti leciti, esemplificando, sulla scorta delle risultanze peritali, circa le immissioni effettuate in favore di Roof Garden e Delfino di consistenti risorse incompatibili con i modesti redditi leciti percepiti dal proposto e dai familiari nel periodo di riferimento”. E si evidenzia anche come la Corte d’appello di Palermo avesse segnalato come “a fronte dei redditi irrisori percepiti negli anni precedenti, il Licata avesse visto un improvviso, cospicuo e ascendente incremento delle proprie entrate per tutto il periodo di accertata pericolosità, a partire dal 2007, situazione che in assenza di prova circa la provenienza degli investimenti originari ha fondato la valutazione di illiceità di dette risorse”. E anche “le doglianze (della difesa, ndr) in ordine alla disposta confisca totalitaria di società e compendi aziendali hanno fondamento – sostiene la Cassazione - in quanto il decreto impugnato (la sentenza della Corte d’appello di Palermo, ndr) ha esposto le ragioni che impongono di ritenere radicalmente inquinata l'attività sociale per effetto delle immissioni di ingenti liquidità di illecita provenienza generate nel periodo di pericolosità”.
UN RIASSUNTO. Michele Angelo Licata, noto per la sua attività nel settore della ristorazione e nel campo alberghiero, è stato per anni al centro di un’indagine della Guardia di Finanza. Condannato in via definitiva a due anni e mezzo per frode fiscale e assolto dall’accusa di malversazione, è stata dichiarata la prescrizione per truffa allo Stato e tutte le altre contestazioni fino all’anno d’imposta 2010. In primo grado, in abbreviato, era stato condannato a 4 anni, 5 mesi e 20 giorni.
Secondo quanto emerso dalle indagini, tra il 2006 e il 2013, il gruppo Licata avrebbe evaso Iva e altre tasse per circa 6-7- milioni di euro. In primo grado, la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani aveva disposto un parziale dissequestro, restituendo alla famiglia Licata circa metà dei beni sequestrati a fine novembre 2015. In secondo grado, però, la Corte d’appello ha accolto quasi per intero le richieste dell’accusa, confermando la «pericolosità sociale» dell’imprenditore e applicandogli la misura preventiva della sorveglianza speciale. A fine novembre 2015, gli inquirenti definirono Michele Licata un «abituale evasore fiscale socialmente pericoloso».
Il maxi-sequestro, disposto su richiesta dell’allora procuratore di Marsala Alberto Di Pisa e dal sostituto Antonella Trainito, fu la più imponente misura di prevenzione patrimoniale per «pericolosità fiscale» a livello nazionale. Lo scorso gennaio, in un altro processo, la Corte d’appello di Palermo gli ha invece confermato la condanna a 5 anni di carcere per auto-riciclaggio.
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