Michele Licata condannato anche in Appello a 5 anni di carcere
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Michele Licata condannato in appello a 5 anni di carcere.
Rideterminando e revocando solo le confische relative ad alcuni capi d'imputazione, la Corte d’appello di Palermo ha confermato la sentenza con cui, il 18 marzo 2021, il Tribunale di Marsala (presidente Lorenzo Chiaramonte, giudice a latere Francesco Paolo Pizzo e Andrea Agate) condannò Michele Angelo Licata, 59 anni, ex imprenditore leader nel settore ristorazione-alberghiero, a cinque anni di carcere per auto-riciclaggio. E con lui, per ricettazione, a pene inferiori, anche quasi tutto il suo nucleo familiare.
A Licata, per una maxi-evasione fiscale, nel 2015 furono sequestrati beni per circa 127 milioni di euro. Anche in quest’ultimo processo, le accuse sono state contestate dalla Procura (pm Antonella Trainito) sulla base delle indagini svolte dalla Guardia di finanza. Il procedimento è scaturito dagli ulteriori approfondimenti svolti nel corso dell’inchiesta che ha visto l’imprenditore travolto per una colossale evasione fiscale, truffa allo Stato e malversazione. Un procedimento che il 7 luglio 2020 lo ha visto condannato anche in appello solo per evasione fiscale (con riduzione di pena a due anni e sei mesi). Poi, però, come detto, il 18 marzo 2021, il Tribunale di Marsala gli ha inflitto altri cinque anni di carcere per autoriciclaggio. A tre anni e 8 mesi, con 8 mila euro di multa, invece, sono state condannate la moglie Maria Vita Abrignani, di 60 anni, e la figlia Silvia Licata, di 29. Tre anni e mezzo, e 7 mila euro di multa, per un’altra figlia: Valentina, di 36 anni. Tre anni e 4 mesi, e 6 mila euro di multa, infine, per la terza figlia, Clara Maria, di 34, e per il genero, Roberto Cordaro, di 39 (marito di Valentina).
E’ stata, invece, assolta (era accusata di ricettazione) la madre di Michele Licata, Maria Pia Li Mandri. Il pm Antonella Trainito aveva invocato condanne da sei a otto anni di carcere. Per tutti i condannati, inoltre, c’è stata interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, condanna al risarcimento danni, da quantificare in sede civile, in favore delle sue ex società, attualmente sequestrate e in amministrazione giudiziaria, e soprattutto confisca “per equivalente” per 12 milioni e 375 mila euro. Solo questa parte è stata “limata” in appello.
In primo grado, la fetta più grossa delle confische, oltre 6 milioni, è stata naturalmente per Michele Licata, per il quale sono stati dichiarati prescritti i reati contestati fino al 20 giugno 2013. Per l’accusa, è lui il “dominus” del gruppo imprenditoriale finito sotto sequestro nel 2015 (alberghi, ristoranti, beni mobili e immobili, quote sociali, titoli e denaro per quasi 130 milioni di euro). E le sue manovre hanno finito per coinvolgere anche i suoi sei familiari. Per l’accusa, Licata avrebbe tentato di evitare, con una serie di operazioni bancarie, l’eventuale sequestro di altre somme di denaro. Cercando, infatti, il “tesoro” del “gruppo Licata”, la Guardia di finanza (Nucleo di polizia tributaria di Trapani e sezione di pg della Procura, allora diretta dal luogotenente Antonio Lubrano), nell’ottobre 2015 sequestrò denaro contante per 50 mila euro e assegni per circa un milione e 200 mila euro. E proprio in quel momento finì indagato l’intero nucleo familiare. Per auto-riciclaggio e ricettazione.
Dall’inchiesta, infatti, è emerso che l’imprenditore, proprio per scongiurare il pericolo di subire ulteriori sequestri (almeno secondo gli investigatori), avrebbe tolto somme di denaro dai suoi conti correnti per versarli su quelli dei familiari (la moglie, la madre e la figlia Silvia) fino a quel momento non indagati, ma per questo poi chiamati a rispondere del reato di ricettazione, come pure la figlia Valentina e il genero. Diversi milioni di euro, inoltre, sarebbero stati prelevati dalle casse delle loro società per essere depositati sui conti correnti personali. Sempre in primo grado, assoluzioni sono state, comunque, sentenziate per alcuni capi d’imputazione. A difendere la famiglia Licata sono stati gli avvocati Carlo Ferracane, Salvatore Pino, Gioacchino Sbacchi, Stefano e Andrea Pellegrino.
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