Il modo giusto per raggiungere Spoleto? In treno.
E lì sul piazzale ti attende Teodelapio duca della Città una scultura monumentale di Alexander Calder, lui famoso per i mobiles (quelle sculture delicatissime e in equilibrio incerto come la vita) e piazzò lì nel 1962 quest’opera, la prima al mondo per dimensioni e l’unica in Italia.
E si arriva al Festival dei Due Mondi perché il quotidiano non lo reggo più, perché quel mobiles che è il tuo ago interiore di sopportazione a volte necessita di altro e allora via a scoprire una nuova opera a teatro di Davide Enia.
Vivere un Festival è confondersi nelle strade di questa meraviglia dell’Umbria che è Spoleto, che verso le 18:30 o giù di lì inizia a prendere forma con maestri di musica che girano per i bar per alleviare un caldo tutto sommato sopportabile alla ricerca di qualcosa di fresco, di un pubblico variopinto - signore con le loro toilette, ventate di colore miste alla fissità dei residenti che hanno il posto al bar del corso per i commenti del caso - e tutto il mondo è paese.
Sbaglio l’orario di ingresso al teatro sopportando stoicamente ma sorridendo lo sguardo di chi mi accompagna e sia: due ore a godere di questo mondo fantastico che gira attorno, la testa si svuota e si ricarica al contempo e gli occhi godono di tanto bello attorno.
Perdo tempo, voglio assaporare ogni secondo di quest’aria magica e ripenso a Enzo Sellerio che visse quella dimensione attorno a Calder raccontando con ironia l’atmosfera di quel Festival e che ci ha restituito in tante fotografie.
E Corso Garibaldi diventa piazza ovvero luogo di incontri e scambi chiacchiere con persone che non vedevi da anni, lì al centro dell’Italia per uno spettacolo che parla di NOI: "Autoritratto" di Davide Enia. (in replica fino a questa sera in prima assoluta alla 67 edizione del Festival dei Due Mondi)
Novanta minuti di parole di musica di luci di cunto che speri non finiscano mai, tale la tensione del pubblico che occupa ogni seduta disponibile all’Auditorium della Stella e ne percepisci il respiro, il battito del cuore. E racconta di NOI, noi che abbiamo sopportato una violenza senza pari tra l’omicidio di Don Puglisi, le stragi di Capaci e Via D’Amelio e i 778 giorni di follia che videro protagonista Giuseppe Di Matteo.
Luci di sala e un canto straniante ci introduce alla magia e non chiedetemi il perché i suoni mi riportano a De André a crêuza de mä al mare ai rumori del mercato al salmastro e quel sale lo sento sulla pelle, sarà l’unica nota romantica di questa rappresentazione straordinaria di Enia e di Giulio Barocchieri - che da anni con la sua chitarra sostiene pause ritmica del cunto e inventa nuove sonorità.
Non sono un critico teatrale, avevo la necessità di respirare di cambiare aria e questa mi è arrivata dall’impegno civile di vivere il palcoscenico, mi è arrivata da un atto di amore che fa uno dei Festival più importanti al mondo a noi siciliani a noi italiani ricordandoci che questo rito antico della messa in scena serve, è necessaria. I minuti volano, Tony Gentile fotografo aleggia rievocato sul palcoscenico e attorno all’attentatuni, parte un qualcosa di una potenza unica ancestrale e sono parole frasi musica ritmo una voce quasi strozzata, è il Cunto. Tutto è sincopato, il silenzio di noi del pubblico è battito accelerato e tratteniamo le lacrime davanti a due maestri che rendono un servizio unico, ovvero quello della memoria eterna.
E’ dedicato a chi ha minimizzato, banalizzato, rimosso o peggio mitizzato la mafia.
E’ dedicato a quelle persone che sono rimaste, vero Giacomo, tu insieme ad altri a raccontare. A dispetto di sorrisi sardonici o peggio, di una sputazzata alle spalle, e rimbombano nella testa le edizioni straordinarie di quel sabato 23 maggio 1992 con una voce unica (è quella di Salvatore Cusimano) che da Palermo con una mestizia infinita faceva il suo mestiere di cronista per il tg1.
E quel numero - 57 - che non è più un numero anonimo, ma che maledettamente tiene il tempo fino al 19 luglio 1992 con una strage forse ancora più drammatica. 57 giorni.
E noi che da trentadue anni ci dividiamo, tra chi fa i conti con quelle date e chi si è fatto largo tra l’amoralità di quel tempo.
E’ questo il Teatro che ci fa crescere sempre e ricordare con obbligo. Ricorda con rabbia, un monologo di John Osborne, e sempre il teatro in una delle forme più alte di civica repulsione all’oblio che con Autoritratto scatta un selfie all’indolenza di molti.
Giuseppe Prode