Doverosa premessa: sono interista. Non so perché, ma lo sono. Altra premessa: seguo l’Inter, da sempre, ma per il resto seguo poco il calcio. Occupandomi della Beneamata, con i suoi annessi e connessi dentro e fuori il campo, a volte mi sono imbattuto in articoli sugli ultrà, la curva nord, l’ala della tifoseria militante e organizzata. E ho notato, nel tempo, qualcosa che mi ha dato un po’ fastidio. Ogni qualvolta ci sono episodi di cronaca nera che riguardano i «capi ultrà» (accoltellamenti, risse, regolamenti di conti vari) tutto viene derubricato velocemente dai giornali a liti nate per motivi vari inerenti la «gestione dei parcheggi allo stadio» o «il controllo delle bancarelle dei panini e delle magliette». Cito proprio espressioni che ho letto, fino a qualche mese fa. Mi fa sorridere questa cosa perché, se fosse successo in Sicilia, avremmo chiaramente parlato di lotta per il controllo del territorio, di estorsione. Ma siamo a Milano, e parliamo invece di affari. Sporchi, ma pur sempre affari. E d’altronde, pecunia non olet.
L’indagine della Procura di Milano che ha scosso il mondo del calcio, in particolar modo quello milanese, con diciannove arresti tra i nomi ultra-noti dell’ambiente stadio, svela qualcosa che sappiamo già, e che dobbiamo imparare a chiamare con il suo nome. Quella che hanno descritto gli inquirenti è un’associazione a delinquere di stampo mafioso. È mafia.
Ed è mafia, davvero. Altro che le scorribande di Carminati e i suoi in «mafia capitale». Qui siamo di fronte a ciò che è descritto esattamente nell’articolo 416 bis del codice penale. Cito testualmente: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali».
È mafia, dunque, e dobbiamo chiamarla con il suo nome, per tanti motivi. Innanzitutto, per liberarci dall’idea pigra e consolatoria delle mafie come fenomeno tipico della Sicilia e del Sud Italia, quando non è così da mezzo secolo almeno. E poi per liberarci dell’idea di mafia come di quella roba lì, che abbiamo imparato a riconoscere dal Padrino a Squadra Antimafia, dall’epopea di Riina a Messina Denaro. Quella è ormai storia. Parliamo davvero di dinosauri.
È mafia per questa sua capacità di arrivare facilmente ai piani alti, di essere e pensarsi come classe dirigente. Siamo proprio nell’ambito dei grandi classici della letteratura mafiosa. «La mafia ha i piedi in Sicilia ma la testa a Roma», diceva un secolo fa Don Luigi Sturzo, per spiegare come i soldati fossero sul territorio, ma le teste pensanti erano vicine a governo e parlamento. Oggi i soldati sono in curva, le teste pensanti, invece, parlano con allenatori e presidenti, interrogano calciatori, decidono le strategie. Siedono, insomma, ai tavoli che contano, come ha fatto sempre la mafia.
È mafia per la sua impunità, vera cifra dell’organizzazione criminale. Così come Cosa nostra è stata, storicamente, capace di rimanere impunita, per gran parte della sua storia, aggiustando processi, aggirando sentenze ed eliminando personaggi scomodi, nel mondo criminale legato al calcio avviene lo stesso: i pregiudicati hanno rapporti con i vertici delle squadre come se nulla fosse, i provvedimenti di contrasto vengono ignorati e gli ostacoli aggirati. La legge della curva sembra avere la precedenza sulla legge dello Stato. Il tutto in un contesto in cui, chi doveva controllare, si gira dall’altra parte, per paura, o per malafede.
È mafia anche in questa farsa antica delle società calcistiche «integerrime» che promuovono lotte contro il razzismo, creano campus per i bimbi degli angoli più sfortunati del pianeta, e poi tollerano tutto, dalla presenza di personaggi criminali fino alle brigate antisemite organizzate. È storia antica anche questa, perché fa parte della narrazione mafiosa inneggiare, paradossalmente, alla lotta alla mafia, in Sicilia l’abbiamo visto. La retorica dell’antimafia è stata una grande conquista della mafia. Così, le cronache sono piene di «festival della legalità» organizzati da giunte poi sciolte per infiltrazione mafiosa. Senza dimenticare i manifesti giganti con la scritta «la mafia fa schifo» con cui fece tappezzare l’Isola un presidente di Regione poi condannato proprio per favoreggiamento alla mafia. Oggi siamo di fronte ad associazioni vicine alle curve che organizzavano «finti» eventi di beneficenza per ripulire un po’ di coscienze, ma, soprattutto, far girare tantissimi soldi.
L’Inter, ma potrebbe essere il Milan, o qualunque altra società, si comporta con la criminalità delle curve come hanno fatto da sempre i partiti politici con la mafia, alternando, per citare le parole dell’inchiesta, «atteggiamenti variabili tra agevolazione colposa e sudditanza». I pm parlano dei nerazzurri. A me sembra di leggere della Democrazia cristiana di Giulio Andreotti e Salvo Lima.
È mafia anche nella sua relazione con altre forze criminali. Da un lato i tentacoli della ‘ndrangheta, con i rampolli delle famiglie calabresi che impongono le uscite a cena con i giocatori (anche questo altro, un dato significativo, perché riconduce a quella mirabile formula sintetica della mafia come «violenza di relazione»). Dall’altro lato i clan della camorra per gestire i biglietti su Roma e Napoli. È tipico delle organizzazioni mafiose italiane lavorare insieme, per network, per gestire affari su vasta scala. Anni fa mi occupai della grande rete criminale che gestiva il trasporto dell’ortofrutta in Italia. La mafia siciliana controllava le coltivazioni, la ‘ndrangheta il trasporto delle merci, la camorra i mercati del nord Italia. Un sistema talmente certosino che, ricordo, era previsto anche chi doveva gestire il controllo dei fornitori delle cassette di legno per la frutta. E qui siamo davanti alla stessa rete: ogni mercato ha un referente, ogni piazza, ogni affare, dai biglietti fino al merchandising, dal controllo dei parcheggi fino al facchinaggio e agli spettacoli musicali. Nessun affare viene lasciato scoperto, anche in questo per seguire la regola antica delle mafie che fanno soldi dove si possono fare soldi.
E, secondo le carte dell’inchiesta, girano anche tante tangenti, a funzionari pubblici per avere la possibilità di aumentare il controllo di aree e servizi. Anche qui, siamo di fronte a uno schema conosciuto, con la corruzione che diventa la clava per sbrogliare in maniera spiccia diversi affari della mafia. Così come il ricorso all’intimidazione, con steward e assistenti minacciati, aggrediti e costretti al silenzio se non rispettavano i diktat dei capi ultrà e il loro governo degli ingressi allo stadio (e nessuno di loro che ha denunciato).
Ancora. Come la mafia ha i neomelodici che esaltano la vita dei latitanti, salutano dalle tv locali «gli amici ospiti dello Stato», organizzano i concerti nella borgata per le feste dei boss, anche la mafia della curva ha i suoi cantori, i rapper del mondo di mezzo, che si fanno i selfie nei locali dei vip, scrivono testi che inneggiano alla violenza, alla legge del più forte, e che diventano anche – per la forza commerciale che rappresentano – hit delle playlist delle radio. I neomelodici in questo non ci sono riusciti.
Insomma, se verranno confermate le accuse della Procura di Milano, vuol dire che siamo di fronte a organizzazioni criminali che agiscono alla luce del sole e che grazie alla loro forza di soggezione e di intimidazione – caratteristiche proprie della mafia – sono cresciute in questi anni, tollerate dalle società sportive, coccolate da vip e semi vip che non vogliono guai, ignorate da giornalisti di testate che hanno sede a Milano e a Roma, ma che la mafia vengono a cercarla in Sicilia, quando bastava andare a San Siro.
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