Messina Denaro e l’omicidio Scopelliti: il ruolo del boss di Castelvetrano nella “guerra preventiva” di Cosa nostra
Trentatré anni dopo l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, emergono nuovi inquietanti dettagli sul ruolo svolto da Matteo Messina Denaro nella fase esecutiva del delitto. Una verità che si ricostruisce tra verbali di collaboratori di giustizia, sequestri, perquisizioni e atti della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Un cold case che, nel tempo, ha assunto i contorni della trama di una strategia stragista: Cosa nostra e ‘ndrangheta insieme, per colpire lo Stato dove più faceva paura.
Un agguato eccellente, studiato a tavolino
Il giudice Antonino Scopelliti fu ucciso il 9 agosto 1991, colpito da una scarica di pallettoni mentre rientrava dal mare nella sua casa di villeggiatura a Piale di Villa San Giovanni, in Calabria. Stava per discutere davanti alla Suprema Corte il ricorso del primo maxiprocesso contro Cosa nostra, e per Riina & co. quell’udienza rappresentava un passaggio cruciale: in gioco c’erano decine di ergastoli già inflitti a boss di vertice.
Secondo la ricostruzione della Dda reggina, l’omicidio fu deliberato a primavera del 1991 durante una riunione della “Commissione” di Cosa nostra a Trapani. A ricevere l’ordine di esecuzione direttamente da Totò Riina fu il boss di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro. Non solo esecutore, ma anche coordinatore e tramite tra Palermo, Catania e Reggio.
Il racconto del pentito Avola
A far riemergere il caso è stato il collaboratore Maurizio Avola, già affiliato al clan Santapaola-Ercolano, che si è autoaccusato di aver preso parte all’agguato. È stato lui a guidare la moto Honda Gold Wing 1200 usata per affiancare l’auto del magistrato e consentire al killer – identificato in Vincenzo Salvatore Santapaola, figlio di Nitto – di sparare a bruciapelo. Avola ha anche rivelato il luogo dove, anni prima, aveva nascosto l’arma del delitto: un fucile a canne mozze "Zabala Hermanos", poi ritrovato dalla Squadra Mobile di Catania.
Messina Denaro presente sulla scena
Nel decreto di perquisizione eseguito a Messina, la Dda di Reggio Calabria scrive che Messina Denaro “presenziava alle operazioni fornendo supporto operativo” al commando. Era a bordo di un’Alfa Romeo 164, mentre altri complici viaggiavano su una Mercedes e una Fiat Uno. L’obiettivo era duplice: assicurare il buon esito dell’esecuzione e garantire l’impunità ai killer. Ma non solo. Secondo gli inquirenti, il boss trapanese fu anche colui che trasmise l’ordine a Eugenio Galea, esponente catanese di Cosa nostra, curando “i contatti con un informatore locale rimasto ignoto” che segnalava gli spostamenti del magistrato.
Le informazioni sugli orari e le abitudini di vita di Scopelliti sarebbero arrivate a Messina Denaro direttamente da Salvo Lima, l’eurodeputato democristiano assassinato l’anno successivo perché – secondo i boss – non aveva garantito sufficientemente Cosa nostra a Roma.
L’alleanza tra mafie e la “strategia stragista”
Secondo la procura antimafia, l’omicidio di Scopelliti non poteva avvenire senza il coinvolgimento della 'ndrangheta reggina. Gli inquirenti parlano di una “catena di comando” che coinvolgeva boss del calibro di Pasquale Condello, Giuseppe De Stefano e Luigi Mancuso in Calabria, e i catanesi Marcello D’Agata e Aldo Ercolano. Ventiquattro gli indagati complessivi, tre dei quali – tra cui lo stesso Messina Denaro – oggi deceduti.
In questo intreccio emerge anche l’ombra della politica. Il decreto di perquisizione richiama le intercettazioni dell’epoca su Corrado Carnevale e la “cordata” Riina-Lima-Andreotti per l’aggiustamento dei processi. La designazione di Scopelliti alla trattazione del maxiprocesso, avvenuta informalmente già a maggio del 1991, fu immediatamente conosciuta da Cosa nostra grazie ai canali istituzionali infiltrati.
La fine di una lunga omertà
L’agguato, rivendicato dalla fantomatica “Falange Armata”, si iscrive nel più ampio disegno della mafia siciliana: “fare la guerra per fare la pace”, piegando lo Stato al compromesso. Con l’omicidio di Antonino Scopelliti, Cosa nostra puntava a bloccare l’efficacia delle condanne del maxiprocesso e a lanciare un segnale inequivocabile: anche i magistrati in Cassazione non erano al sicuro.
Oggi, a distanza di 34 anni, grazie a nuove indagini e alle dichiarazioni – ritenute più riscontrate rispetto al passato – di Avola, la verità torna a fare capolino. E riemerge anche l’ombra lunga di Matteo Messina Denaro, il boss che da Castelvetrano portava gli ordini di morte dal cuore nero di Cosa nostra.
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