Complesso e salvifico messaggio di redenzione: "Il piccolo principe"
“Tutto scricchiola intorno a noi. Tutto frana. È così totale che la morte stessa sembra assurda. Manca di serietà, la morte, in questo pandemonio” (Antoine de Saint-Exupéry, Pilota di guerra)
“Il Piccolo Principe” (1943) di Antoine de Saint- Exupéry è uno di quei libri per l’infanzia che, come spesso accade ai capolavori, è letto prevalentemente dagli adulti, che lo considerano a loro volta un capolavoro assoluto, ma forse lo sovraccaricano di simbolismi e di chiavi ermeneutiche. D’altra parte è innegabile che un certo tipo di interpretazione esegetica sia necessaria e inevitabile, oltre che opportuna, per un testo così denso e carico di significati metaforici. Forse allora possiamo condividere il parere autorevole di Antonio Faeti secondo cui “Il Piccolo Principe” è una “metafora d’infanzia”. Ossia un testo che allude alla condizione imperscrutabile dell’infanzia, a suoi misteri, ai suoi paradossi. Questa sua ambiguità consustanziale è comunque evidente già nella dedica di quest’opera celeberrima all’amico Leon Werth, con l’esplicita ammissione di domandare “perdono ai bambini di aver dedicato questo libro a una persona grande” e la correzione finale di averlo dedicato a Leon Werth “quando era bambino”. Il che implica che la metafora dell’infanzia può essere colta, non già dal bambino, ma solo da chi ha sperimentato su sè stesso, nella sua vita, la condizione infantile e può quindi riviverne gli effetti con matura consapevolezza. Ma a prescindere da queste considerazioni marginali, “Il Piccolo Principe” è certamente da considerarsi un libro per l’infanzia e sull’infanzia per l’assoluta centralità del protagonista e del suo mondo, oltre che per il primato dei valori dell’infanzia e naturalmente per lo stile favolistico, particolarmente esaltato dalla sua natura ibrida, di testo illustrato, a doppio registro letterario e figurativo. Un libro, insomma, incentrato sull’infanzia, sui suoi temi e sui suoi modi, e destinato all’infanzia, ma che tuttavia riverbera la sua grazia anche sui lettori “grandi” e talora sui grandi lettori. Un libro importante e potente, carico di angoscia e di un tragico fatalismo, di un senso malinconico e poetico di assurdo e di fragilità. Che è insieme sogno e autobiografia.
Lo spunto iniziale della fiaba, l’incontro tra il piota e il fanciullo celeste nel deserto, è tratto da un episodio realmente accaduto a Antoine de Saint-Exupéry il 29 dicembre del 1935: nel tentativo di stabilire un nuovo record nel volo Parigi-Saigon, l’aereo dello scrittore precipita nel deserto libico a duecento chilometri da Il Cairo. La salvezza arriva da soccorritori beduini. A parte il provvido soccorso, è questa la situazione d’apertura del racconto: “Qualche cosa si era rotta nel motore, e siccome non avevo con me né un meccanico né passeggeri, mi accinsi da solo a cercare di riparare il guasto”. A questo punto interviene nel dialogo una “strana vocetta” angelica ed extraterrestre che chiede al pilota-meccanico di disegnargli “una pecora”. È il Piccolo Principe “caduto dal cielo”, una bionda ed eterea figura che supplica il pilota di disegnargli una pecora per il suo piccolo asteroide nativo dotato di un rigoglioso Baobab, come se il pilota fosse un demiurgo capace di dar vita e anima ai suoi scarabocchi.
In questo scenario surreale prende le mosse la tragica epifania del Piccolo Principe, il suo funesto tramonto su un mondo assurdo che non riesce a comprendere l’utilità del bello e il segreto dell’invisibilità arcana dell’essenziale. Complesso e salvifico messaggio di redenzione.
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