×
 
 
20/06/2025 06:00:00

Gli uomini - ombra della sanità siciliana

 Non i dirigenti, neanche i manager. Non gli assessori o i presidenti di commissione. Non Renato Schifani, presidente della Regione. No; la sanità siciliana non è gestita da loro. Bisogna dirlo. È gestita da quelli che possiamo chiamare uomini ombra: figure senza volto, senza targa, senza pagina social che però decidono tutto. Dove finiscono i milioni, chi vince la gara, chi viene nominato dirigente, chi si accomoda alla mensa (di lusso) degli appalti. Uomini che nessuno conosce – fino al giorno in cui, come da copione, si rompe l’incantesimo: una perquisizione, un’intercettazione, un’indagine della Guardia di Finanza. E allora, eccoli, nelle poche foto che di loro ci sono in giro, nel pochissimo che si sa.

L’ultimo della lista – che, va detto, è sempre provvisoria – è Antonio Maria Sciacchitano, detto Ninni. Un commercialista palermitano, classe 1959. Secondo la Procura di Palermo, è lui, questa volta, a tirare i fili invisibili di un sistema.

Ventidue indagati. Due arresti domiciliari. Cinque obblighi di dimora e presentazione. Divieti di esercizio, sospensioni, interdizioni. Il tutto per una storia vecchia come il precariato: tangenti per pilotare appalti pubblici, sostiene la procura. Sei gare truccate, per un valore complessivo di circa centotrenta milioni di euro. In cambio, sempre secondo l’accusa, mazzette fra i dieci e i trentamila euro, consulenze farlocche, assunzioni ad personam. E un tariffario: diecimila euro per avere in anteprima i documenti riservati della gara. «Un servizio da pagare», lo chiamava Sciacchitano.

La Procura parla di un «comitato d’affari». Un’organizzazione fluida, trasversale, con imprenditori, faccendieri, dirigenti pubblici. Una nebulosa di interessi convergenti.

Difficile elencare tutti gli incarichi ricoperti da Sciacchitano: basti sapere che, in Sicilia, se aprite una porta nel settore sanitario, è probabile che ci sia lui dietro. Collegio sindacale dell’Asp di Palermo? Presente. Consulente contabile a Caltanissetta? C’era. Valutatore dei manager sanitari? Pure. E ancora: Ersu, Città metropolitana di Catania, Policlinico di Messina. Persino revisore dei conti in una dozzina di comuni. Un curriculum più lungo del piano pandemico. E soprattutto, un ruolo-chiave che l’accusa definisce con due parole pesanti come un macigno: intermediario occulto. Un fixer, direbbero a Londra. Uno che conosce i numeri, ma anche le stanze giuste, i telefoni che contano, i dirigenti disponibili. E li muove.

Le sei gare incriminate sono un campionario delle peggiori tentazioni della sanità pubblica: apparecchiature biomediche, sterilizzazioni, forniture di pasti, biancheria. Tutte gare su cui, secondo la Finanza, si è abbattuto il «metodo Sciacchitano»: documenti trafugati, punteggi gonfiati, commissari scelti a tavolino. Tutto, purtroppo, già visto in altre inchieste analoghe degli ultimi mesi.

Il rapporto tra Sciacchitano e il sistema di potere si coglie dalle intercettazioni. C’è lui che si vanta di aver fatto nominare Tizio o Caio, di aver «contribuito» alla scelta del provveditore di questo o quell’ospedale. Uno schema consolidato: prima la spinta, poi il favore, infine la parcella. O la percentuale sull’appalto. E intanto, gli imprenditori bussavano alla sua porta quando c’era da vincere una gara. Lo cercavano, lo coinvolgevano, si affidavano a lui. Perché, in fondo, tutti lo sapevano: chi voleva fare affari nella sanità, doveva passare da Ninni.

Nell’inchiesta non mancano nomi eccellenti: dirigenti apicali, ex manager, burocrati di lungo corso. Alcuni dei quali citati solo per contesto, non indagati. Ma è la rete – più che i singoli – a dare l’idea della metastasi. Perché è quella la vera patologia della sanità siciliana: non l’incompetenza, ma l’organizzazione. Non lo spreco, ma la scientificità del malaffare.

E la politica? Non pervenuta. O meglio: presente in filigrana. Nelle telefonate, nei nomi evocati, nei rapporti personali. Ma sempre un passo indietro, protetta da un grado di separazione. Il mestiere degli «uomini ombra» è anche questo: fare il lavoro sporco per chi non può permettersi di sporcarsi le mani.

Eppure, davanti a tutto questo – tangenti, gare truccate, nomine lottizzate, appalti spartiti come torte in una festa patronale – il problema, per la Regione Siciliana, non sembra essere il sistema. Né i controlli, né l’efficienza. E nemmeno la selezione della classe dirigente.

In Sicilia, quando la corruzione esplode, si reagisce con un’arma micidiale: il protocollo. Uno a settimana, minimo sindacale. L’ultimo, in ordine di tempo, è quello firmato due giorni fa a Palermo. Al tavolo: Renato Schifani, presidente della Regione Siciliana; Daniela Faraoni, assessora alla Salute; Massimo Mariani, prefetto. Oggetto: «protocollo di legalità» per la costruzione di quattro ospedali, tra cui l’attesissimo polo pediatrico di eccellenza.

A leggerlo, sembra l’atto costitutivo della Svizzera: banca dati antimafia, flussi tracciabili di manodopera, settimanale di cantiere, tracciabilità dei contratti, controlli incrociati. Non manca nulla, neppure le sanzioni. Peccato che i protocolli non abbiano mai fermato le mazzette. Né impedito le nomine pilotate. Né sventato le gare con documenti già «intercettati» dai soliti noti prima ancora della pubblicazione. Anzi: se c’è una cosa che ogni indagine giudiziaria degli ultimi anni ci insegna, è che in Sicilia le firme servono a coprire, non a prevenire. La corruzione avanza nonostante i protocolli, ma grazie al fatto che nessuno li prende sul serio.

C’è un paradosso, nella gestione della sanità in Sicilia, che vale la pena di raccontare: più si firma per garantire legalità, meno la si ottiene. Perché il sistema non è malato solo di corruzione. È malato di retorica. Di propaganda. Di annunci che diventano la foglia di fico per non riformare davvero nulla. È un sistema che preferisce fare finta di curarsi, piuttosto che guarire. In fondo, è sempre la stessa medicina: non serve un trapianto, basta una firma.

La corruzione? Sconfitta con un protocollo. La malasanità? Affrontata con un piano. I fondi europei? Tutelati con un comitato. Il resto è solo attesa. E pazienti – nel senso più letterale del termine.