È nel 1634 che lo scrittore napoletano Gianbattista Basile accoglie nella sua raccolta di racconti popolari Lo Cunto de li Cunti la fiaba “La Gatta Cennerentola”, meglio conosciuta come Cenerentola nelle successive versioni di Charles Perrault e dei fratelli Grimm.
Una bellissima fanciulla, figlia di un ricco gentiluomo, viene ridotta a sguattera dalla seconda moglie del padre e dalle sorellastre, figlie della donna. Queste, nella versione di Perrault, la chiamano “culincenere” per via della cenere che sporca le vesti della ragazza, costretta a dormire sul pavimento ai piedi del camino.
A risollevare le sorti della giovane, però, ci pensa una misteriosa quanto salvifica fata che, con la sua bacchetta magica – e l’aiuto di un esercito di topini operosi – trasforma Cenerentola in una vera e propria principessa, degna dei migliori salotti della più ricca nobiltà. Il principe se ne innamora, e il resto – a lieto fine – lo conosciamo già.
Ciò che ha dell’incredibile – ma che non è il frutto di qualche malefico incantesimo, ed è piuttosto la cruda realtà – è che la fiaba di Cenerentola potrebbe presto prender vita a Trapani: non al buio di una sala teatrale, bensì alla luce delle sue strade e tra le oscure pieghe di pratiche sociali ed economiche dalla dubbia sostenibilità.
Il cast è stellare, di caratura internazionale, con uno sterminato numero di comparse. Persino tu, caro lettore, potresti essere tra queste senza saperlo – o senza volerlo.
Il ruolo di protagonista è affidato alla città di Trapani stessa che, come Cenerentola, è figlia di una storia ricchissima di identità culturale e territoriale, custode di bellezze materiali e immateriali di altissimo valore.
Nel ruolo della matrigna troviamo chiaramente la classe dirigente che, a più livelli, si è presa in carico la guida politica e amministrativa della città – e non solo. Dal Risorgimento a oggi, la matrigna locale, regionale e nazionale costringe la Cenerentola di granata vestita all’umiliazione e all’abbrutimento, nel fisico e nello spirito. Ciò che ci consegnano oggi è una città quanto mai periferica, in una regione periferica, di un Paese periferico.
Tuttavia, non è il caso di incupirsi, caro lettore. Il mondo del ventunesimo secolo sembra essere pieno di fatine risolvi-problemi che offrono soluzioni semplici a problemi estremamente complessi – d’altronde basta un colpo di bacchetta magica. In alcuni casi queste fatine hanno un curioso colorito arancione, capigliature articolate, parlano americano e vivono in misteriose case bianche. In altri casi, come quello trapanese, parlano romano e vestono Louis Vuitton.
A più riprese è stato chiarito come parte della strategia per risollevare le sorti della Cenerentola trapanese debba passare dal far approdare il turismo crocieristico, di lusso ed extra-lusso in città – adesso spoglia di strutture alberghiere di livello e di ristoranti stellati. Si deve fare di Trapani una principessa di primissimo ordine, degna dei migliori salotti della più ricca nobiltà.
Certo, la sceneggiatura paga il prezzo di essere stata scritta più di qualche secolo fa e quindi di citare nobili, re e principi. Ma basta poco per svecchiarla e dare il giusto nome a cose e personaggi. Non è certo un principe ciò di cui si è alla ricerca e che si vuole sedurre, ma quella che un tempo non lontano si sarebbe chiamata borghesia, il capitale o, più semplicemente, i ricchi.
Sono i ricchi che si devono compiacere, ed è il capitale che si deve attrarre. Lungi dal voler demonizzare i due a priori, la questione si apre sulla capacità e volontà della politica di tracciare un perimetro chiaro e netto – fatto di sostenibilità ambientale, sociale ed economica – entro e non oltre il quale una tale trasformazione debba e possa muoversi. È bene trovare per Cenerentola un principe o un’altra fonte di felicità, ma bisogna assicurarsi che questi le facciano effettivamente del bene.
Già nel 1964 la sociologa tedesca Ruth Glass osservava come molti dei quartieri di Londra – dove viveva – stessero perdendo molto del loro spirito, della loro essenza popolare, perché trasformati per dar spazio a persone con maggiore capacità di spesa e ai servizi a loro dedicati. Gli umili e trasandati ristoranti italiani venivano trasformati in ben più eleganti espresso bar, e i vecchi cottage in nuove e costose case. Ruth Glass coniò così il termine gentrification [gentrificazione], cioè il processo di conversione dello spazio urbano ad uso e consumo della gentry – la borghesia inglese.
In questo contesto, il timore è che i trapanesi – la cui stragrande maggioranza non appartiene certo al mondo dell’extralusso – vengano tagliati fuori, cacciati via dalle piazze e dalle strade che gli appartengono, dagli spazi sociali che hanno sempre occupato. È difficile credere che la politica del Futuro, in controtendenza con il passato, sia capace di regolare e non subire lo sviluppo immobiliare privato e di agire sul controllo degli affitti.
In fin dei conti, quindi, il vero timore è che l’unico ruolo che lo sceneggiato sia in grado di offrire al trapanese sia quello del topino operaio, a servizio di principesse e principi troppo ricchi e impettiti per rischiare di farli inorridire alla vista della vecchina seduta sul marciapiede, sulla fidata sedia di plastica bianca, a mangiare caccavetta e simenza guardando chi passa; o di infastidirli con le grida dei bambini che giocano in piazza. È così che osterie e carrubbari lasciano spazio a raffinati ristoranti e lounge bar. È così che le pallonate in piazza, le briscole tra anziani al bar di quartiere, i vicoli in cui si abbannìa á la catitara vengono spazzati via.
Che i topi si rendano operosi per offrire i servizi di corte; che tappezzino attività commerciali e strutture ricettive di stampe Made in China di teste di moro; che facciano della loro cultura, dei simboli e della tradizione un feticcio perché il turista abbia la falsa sensazione di essere spettatore di qualcosa di vero e tradizionale; che i topi si lancino in spettacoli folkloristici – e non folklorici – per tenere chi paga ben intrattenuto.
Una volta finito lo spettacolo, però, che tornino alle loro grame vite e che si ritirino come ratti nei loro vicoli bui, lontano dagli occhi di chi è troppo ricco per sopportarne la vista.
Per prendere coscienza di tutto ciò basta guardare quanto accaduto a città come Venezia, dove poveri cittadini non potevano tornare a casa per via delle transenne poste in occasione del matrimonio del miliardario Jeff Bezos – il principe di turno, infatuatosi della Serenissima principessa. O ancora, basti guardare il caso di Barcellona, capitale della Catalogna, svuotata in molte sue parti degli abitanti locali – impossibilitati a pagare gli affitti di un mercato immobiliare in costante crescita – e resa un luogo in cui consumare, piuttosto che un posto in cui vivere.
Venezia sembra aver ormai sposato indissolubilmente il suo principe ed essersi votata a divenire una cartolina per i turisti da fotografare, piuttosto che una città per i suoi cittadini da vivere. Barcellona è promessa in sposa, ma sembra anche resistere strenuamente alle nozze. Lo testimoniano i graffiti TOURISTS GO HOME [turisti tornate a casa] di cui è tappezzata la città, e le scritte ERASMUS GO HOME [studenti Erasmus tornate a casa] con cui sono imbrattati i bagni di bar e università.
Per Trapani, il lieto fine è certamente ancora possibile, affinché da topini i suoi cittadini si facciano essi stessi principi e principesse, detentori di un patrimonio inestimabile da non svendere al miglior offerente.
Davide D'Amico