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28/10/2025 06:00:00

La brillante strategia del tabù: Valditara e l'arte di lasciare i ragazzi nel Medioevo

di Katia regina

Questa volta il ministro Valditara si è informato bene. Avrà sicuramente chiesto il parere di studiosi e pedagogisti per decretare sul veto dell'educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Ha preso la mira con cognizione dopo aver scoperto quali siano le fasi più critiche della sviluppo cognitivo dei minori. Dopo aver scoperto che già tra i 3 e i 4 anni, il bambino interiorizza le norme culturali di genere e che questi si trasformano poi in veri e propri imperativi morali, ha dunque scelto di proibire un intervento educativo fuorviante che potrebbe mettere a rischio schemi di genere polarizzati. Peggio ancora poi durante gli anni della scuola primaria, per non ostacolare la cristallizzazione del pregiudizio. Si dimentica, con olimpica negligenza, che non parlare di sessualità è già educazione sessuale, quella basata sul silenzio, sulla paura e sul tabù.

 

Ma il vero colpo di genio ministeriale è intervenire chirurgicamente per garantire che i ragazzi entrino nell'adolescenza con la mente ben chiusa.

 

Sappiamo bene, grazie a Piaget, che l'adolescenza è il momento in cui i ragazzi dovrebbero sviluppare il pensiero operatorio formale, quella capacità astratta che consente loro di ragionare su concetti ipotetici, simbolici e complessi, separando l'idea di genere dal dato concreto dell'osservazione fisica. Ed è proprio questa maturità cognitiva a permettere la complessa esplorazione della propria identità (Identità vs. Confusione di Ruolo, Erikson).  Sebbene Erikson (anni '50-'60) si muovesse in un contesto sociale più binario, il cuore della sua teoria, applicata oggi, impone un ambiente educativo che supporti l'esplorazione, consentendo al giovane di connettere il proprio 'senso del Sé' con il genere e il ruolo sociale in modo non rigido.

 

Ebbene, il Ministro, nella sua lungimiranza, decide che questa complessità è inutile, se non dannosa. Censurando o sottoponendo a veto la discussione sulle identità non binarie o fluide, si assicura che il ragazzo rimanga saldamente ancorato al pensiero concreto e alle due uniche categorie ammesse dal buon senso comune. Perché mai un giovane dovrebbe esplorare la propria identità interiore e subconscia se il modello di riferimento è già stabilito alla nascita, come una mera etichetta burocratica? Limitare la conoscenza della pluralità è il modo più efficace per garantirgli un'identità semplice, binaria e rassicurante, impedendo alla maturità cognitiva appena acquisita di funzionare a pieno regime.  E poco conta poi se nella realtà esistono persone non binarie, magari nella stessa classe, ragazz* che non rispondono alle due categorie stabilite per legge e che diventano target perfetti per i bulli di turno; e conta ancora meno se poi qualcuno di questi sceglie di togliersi la vita per disperazione. Nonostante sia scientificamente provato che investire nell'accettazione e nell'inclusione è l'intervento più etico ed efficace per prevenire la catastrofe del suicidio giovanile in questa popolazione vulnerabile. 

 

Il Ministero afferma ipocritamente di volersi affidare a "professionisti seri: psicologi, medici, docenti universitari", ma solo dopo aver escluso la possibilità che la scuola possa agire in modo preventivo.

 

Gli Ordini degli Psicologi, professionisti serissimi per definizione, urlano all'unisono che "un’educazione sessuo-affettiva adeguata all’età contribuisce a promuovere comportamenti relazionali sani, a prevenire fenomeni di bullismo, violenza di genere e uso distorto dei media digitali". Tradotto dalla clinica alla politica: intervenire precocemente sulla relazionalità significa disinnescare la bomba della violenza di genere, dell'omofobia e della transfobia, che sono la diretta conseguenza di quegli schemi rigidi e polarizzati che la scuola si affretta a non toccare.  

 

Il DDL, invece, con una logica degna di un paradosso kafkiano, stabilisce che la scuola non deve intervenire sui nuclei disfunzionali prima che si trasformino in atti di prevaricazione e maltrattamento. Si tratta di una brillante visione emergenziale della salute pubblica: gli psicologi sono benvenuti a raccogliere i cocci e curare i traumi, ma non sia mai che lavorino per evitarli. In questo modo si garantisce un robusto serbatoio di disagi e richieste di aiuto, un mercato fertile per chi interviene a valle. Un'omissione che, di fatto, contravviene agli impegni sottoscritti dall'Italia a partire dalla Conferenza del Cairo del 1994, dove fu sancito il diritto dei giovani a un'educazione sessuale precoce e adeguata all'età.

 

E veniamo al capolavoro di burocrazia: il "consenso informato" preventivo per le lezioni sull'identità di genere, un baluardo per non confondere i nostri innocenti pargoli.

 

È notevole come questa richiesta di condivisione preventiva di tutto il materiale didattico sia limitata esclusivamente agli interventi di educazione sessuo-affettiva, come sottolineano gli stessi psicologi. La ragione, ovviamente, è la più nobile: scongiurare l'incubo che un genitore, sentendo pronunciare la parola "educazione sessuale"— un tabù insuperabile nel Bel Paese — possa immediatamente associare il programma ministeriale a un manuale illustrato di Kamasutra per ragazzi. Meglio evitare l'oltraggio, facendo passare per tutela dei minori ciò che è solo una censura preventiva dettata dalla paura ancestrale della parola "sesso".

 

Perché non si richiede un consenso informato per la lezione di Storia che discute i regimi totalitari? Potrebbe confondere il bambino con concetti astratti di libertà e dittatura.

 

Perché non per la lezione di Matematica sulla geometria non euclidea? Potrebbe turbare la sua percezione dello spazio.

 

No. Il consenso è richiesto solo quando si parla di corpo, emozioni e identità, cioè sui temi che la legge 107/2015 impone come obbligo trasversale a tutte le discipline per l'educazione al rispetto e alla non discriminazione. Lo scopo non è tutelare la famiglia, ma garantire che, grazie al "veto selettivo", l'obbligo di legge venga elegantemente svuotato di significato. Il risultato è la creazione di un blocco ideologico che, con il pretesto della corresponsabilità, cancella di fatto la responsabilità della scuola di formare cittadini consapevoli e rispettosi della pluralità, come richiesto dalla Costituzione.  

 

In definitiva, il DDL non è un passo avanti nella cultura del rispetto; è una marcia indietro trionfale. Un capolavoro di anti-pedagogia che, ignorando il consenso della letteratura scientifica internazionale (OMS, UNESCO), sceglie di lasciare i ragazzi privi degli "strumenti fondamentali per comprendere e gestire i cambiamenti fisici ed emotivi legati alla crescita". Il Ministero dell'Istruzione si è assunto, con grande fierezza, il ruolo di tutore degli stereotipi e di garante della rigidità mentale. E la cosa più grave è che lo sta facendo con una perfetta, glaciale, consapevolezza scientifica.

 

Mi scuso per alcuni passaggi di questo articolo insolitamente puntellati da tecnicismi pedagogici, in genere preferisco evitare, ma stavolta mi sono sentita chiamata in causa da educatrice professionale socio-pedagogica, non ho tuttavia rinunciato al mio modo di affrontare i fatti che ogni settimana mi ispirano a scrivere.

 

Consigli per la lettura: Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell'epoca della fragilità adulta di Matteo Lancini, Raffaello Cortina Editore


Consigli per la visione: Galimberti e il disagio giovanile: «Senza futuro, sballottati dalle emozioni»

 


 

Gigi Proietti - L'educazione sessuale

 



Libri e fuffa | 2025-11-13 06:00:00
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