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12/12/2019 06:00:00

Milano 12 dicembre 1969: cronaca di una sera di follia

 

di Massimo Jevolella

Avevo 19 anni ed ero uno studente di medicina. Abitavo in un palazzo dell'area nord-ovest di Milano, la stessa dove oggi sorgono i grattacieli della Unicredit e della Regione Lombardia. Ero un marxista fervente, e militavo nelle file del Movimento studentesco dell'Università Statale. Non ero però un fanatico settario: ero un “cane sciolto”, come si usava dire allora. Una piccola scheggia anarcoide e imbevuta di utopia, che nei cortei di protesta vagava tra le file dei vari gruppuscoli della sinistra extraparlamentare, alla ricerca di una impossibile identità.
Pochi giorni prima avevo preso la parola durante un'affollatissima assemblea nell'Aula magna della Statale, solo per scagliarmi contro le divisioni che già dilaniavano il Movimento degli studenti. Avevo gridato che occorreva ritrovare l'unità tra di noi, che non dovevamo più combatterci ferocemente tra maoisti, internazionalisti, operaisti, anarchici, situazionisti eccetera. Ricordai ai compagni le manifestazioni del dicembre del '68 e il loro fresco, esaltante spontaneismo, quando dopo l'eccidio di Avola, in Piazza Scala e davanti alla Rinascente avevamo dato prova di una compattezza che aveva spaventato per la prima volta l'odiato potere borghese.
Ma il mio appassionato intervento era caduto nel vuoto. Solo Mario Capanna – allora leader indiscusso del Movimento – aveva mostrato di gradire le mie parole. Ma dall'aula non erano partiti molti applausi. Il clima era di grande confusione. Di una incredibile e caotica eccitazione. Come se il sogno della rivoluzione si fosse consumato già nel fuoco dell'impazienza, mutandosi in un incubo. Come se tutti percepissero che qualcosa di non necessariamente bello stava per accadere. Qualcosa di enorme. Una svolta epocale, perché tutto quell'anno, il 1969, era stato un anno di battaglie anche violente, di sconvolgimenti, di passioni esplosive. Di sanguinosi scontri di piazza. L'anno che non per nulla si era appena concluso con le lotte operaie dell'Autunno caldo. Le lotte che di lì a poco avrebbero portato alla promulgazione dello storico Statuto dei lavoratori.


Ricordo che quel giorno mi ero rinchiuso nella mia stanza, fin dal mattino presto, per studiare accanitamente. Dovevo prepararmi per il terribile esame di anatomia umana. Un “mattone” di migliaia di pagine diviso nei due tomi giganteschi del Bairati, il trattato che tutti i medici italiani hanno dovuto imparare a memoria per poter arrivare alla laurea. Da ore mi consumavo gli occhi su quelle pagine. Poi, verso le quattro del pomeriggio, ebbi una crisi di rigetto. Aria, aria. Dovevo alzarmi, e uscire di casa. E che altro potevo fare, se non inforcare la mia vecchia bici scassata e pedalare verso il centro, sfidando l'aria gelida e impregnata di umidità e di fumo, per andare alla Statale in via Festa del Perdono, dove centinaia di studenti dovevano trovarsi in assemblea per discutere di diritto allo studio, di guerra del Vietnam, di lotta al consumismo, al neofascismo e allo Stato borghese e reazionario?
A quell'ora, e con quel cielo plumbeo, sembrava già quasi notte. Io pedalavo sotto le luminarie sospese sulle strade, ma non vedevo le luci. Mi sembrava di scivolare come in sogno in una notte cupa, ben lontana dal clima gioioso del Natale. In via Turati, e poi in via Manzoni, cominciai ad accorgermi di strani movimenti, di una strana agitazione. Vedevo gente che camminava con affanno, quasi correndo. Ricordo un gruppo di donne che s'infilavano frettolosamente in un ingresso della metropolitana. Poi, all'improvviso, l'ululato lacerante delle sirene. Ambulanze, polizia, carabinieri. Sembrava una folle gara. Tutti i mezzi correvano impazziti verso il centro. Io fui costretto a procedere sui marciapiedi, perché le strade erano diventate di colpo impraticabili.
In Piazza del Duomo capii finalmente che dovevo lasciare la bici e andare avanti a piedi. C'era folla agitata, c'era gente che urlava. Un fiume umano imboccava la via dell'Arcivescovado in direzione di Piazza Fontana. Mi unii alla folla. Arrivai alla fontana. E qui davvero mi mancano le parole per descrivere lo spettacolo che si parò in quel momento davanti ai miei occhi. Qui i miei ricordi si fanno caotici e ingarbugliati, proprio come quelli di un sogno o di un incubo febbrile. La piazza era come divisa in due settori. Da un lato la mole grigia e opprimente della Banca dell'Agricoltura, totalmente isolata e asserragliata dietro una cortina di forze dell'ordine, auto e ambulanze. Dall'altro il palazzaccio fatiscente dell'Albergo Commercio, che poco più di un anno prima era stato occupato dai militanti della sinistra extraparlamentare, e che da mesi i giornali di Milano indicavano come un covo pericoloso di anarchici e sovversivi. Come un bubbone pestifero piantato nel cuore della città, e da estirpare al più presto a tutti i costi.


Io naturalmente mi fiondai là dentro. Nella ressa frenetica riconobbi degli amici, dei compagni, che avevano tutti il viso stravolto. La bomba. La bomba... Ben presto anch'io seppi che mezz'ora prima era esplosa una bomba lì davanti, nella banca. E che c'erano dei morti, e tanti. E tantissimi feriti. Un disastro. E chi è stato? Chi è stato? E perché? Queste domande ci assillavano, rimbalzavano di bocca in bocca senza sosta. E già c'era qualcuno che gridava: “Vogliono farci fuori!” “Come, e perché? Perché allora non hanno colpito noi? Perché non hanno fatto crollare l'Albergo Commercio?” “Ma è chiaro! È una bomba fascista. L'hanno fatta esplodere proprio qui, in questa piazza... hanno scelto questa banca tra le centinaia di banche di cui è piena Milano, soltanto per questo, perché qui ci siamo noi!” “Che cazzo vuoi dire? Che significa tutto questo?” “Significa che ora siamo fottuti. Vogliono far credere alla gente che noi siamo i terroristi, che il movimento studentesco e operaio ha fabbricato la bomba e l'ha piazzata nel cuore del capitalismo italiano, in una banca, sotto Natale, per guastare la festa del consumismo in nome dell'anarchia e del comunismo”.
La bomba era esplosa da meno di un'ora, e questa era già la certezza che si affermava tra i giovani dell'estrema sinistra. E la piazza intanto si stracolmava di gente, di rumori, di tutto. E allora, che fare? Che cosa potevamo fare per reagire a quell'orrenda storia? Si diffuse una voce, un ordine: creiamo un cordone umano. Circondiamo la piazza tenendoci per mano. Ci provammo, ma su tre lati della piazza fummo respinti dalle forze dell'ordine. Ci arroccammo sul lato di fronte alla banca, fra l'ingresso dell'Albergo Commercio e l'imbocco della via che conduce al Duomo. Formammo un cordone umano, tenendoci strettamente per mano, cantando “Bandiera rossa” e scandendo slogan rivoluzionari.

Poi accadde qualcosa di nuovo. Dall'Università Statale, che è vicinissima a Piazza Fontana, cominciarono ad arrivare compagni del Movimento, anche i famigerati “katanga” inconfondibili coi loro fazzoletti rossi sulla faccia, e uno di loro mi riconobbe e mi si avvicinò. Era proprio lui, Mario Capanna. Ricordo che aveva una sorta di medaglione che gli pendeva sul petto. Sembrava più un hippy che un comunista rivoluzionario. Mi disse: “Fammi un piacere, vai alla Statale, in Aula magna, lì c'è l'assemblea permanente, resteremo lì anche di notte, non ci muoveremo da lì fino a quando non ci avranno detto chi è il colpevole della strage. Tu vai all'assemblea, informati di quello che dicono, poi torna qui, fai da tramite tra la piazza e l'Università”. E così mi trovai promosso sul campo al ruolo di messaggero (a quei tempi non esistevano i telefonini!). E correndo come una lepre lasciai la piazza per andare all'assemblea di via Festa del Perdono. E passai la sera, e la notte, a correre su e giù tra la piazza e l'assemblea. Ma di tutta quella gran baraonda di messaggi ricordo soltanto due frasi, che mi si conficcarono come chiodi nel cervello: “Sono stati i fascisti”, e “Vogliono distruggere il nostro movimento”.


Altro non ricordo di quel giorno, di quella sera, di quella notte da incubo. Sì, concordo con quelli che dicono che quella tragedia segnò la fine della nostra innocenza, delle nostre utopie rivoluzionarie. Gli eventi dei giorni e dei mesi successivi non fecero che confermare quella verità. Alcuni anni dopo incontrai Pietro Valpreda. Lo conobbi all'inaugurazione di una libreria in Largo la Foppa, in fondo a via Moscova. La libreria, guarda un po', si chiamava proprio “Utopia”. (Ora non esiste più, al suo posto c'è un grande bar scintillante, sempre pieno di gente che se la sciala con gelati, tramezzini e aperitivi serali). Strinsi la mano a quell'uomo, a Valpreda che intanto si era fatto da innocente tre anni di galera. Scambiammo poche parole a bassa voce. Mi parve un uomo piccolo, debole, dimesso e indifeso. Lo guardai bene negli occhi malinconici. Ne ebbi una gran pena. Ed ebbi anche un po' pena di me stesso, e di tutte quelle speranze naufragate in un mare di sangue e di non senso.



Native | 2024-04-25 09:00:00
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