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20/11/2019 06:00:00

Sciascia 2019. "Il Fantasma di Sciascia" di Marcello Benfante

di Marcello Benfante

Trent’anni senza Sciascia sono tanti, e forse cominciano a essere troppi. Cominciano, cioè, a pesare in modo pressoché insostenibile sulle spalle di coloro per i quali questa mancanza è avvertita dolorosamente come una menomazione culturale ancora non sanata e forse insanabile.

Sono davvero tanti, questi trent’anni di solitudine, di elaborazione del lutto, non solo perché la memoria collettiva fatalmente s’appanna, sbiadisce, tradisce, e la figura di Sciascia sembra quasi ormai appartenere a una dimensione leggendaria (a una moralità leggendaria, potremmo dire, parafrasando in modo impertinente il titolo di un libro di Jules Laforgue).

Ma anche perché si sta affacciando, sul panorama culturale italiano e siciliano in particolare, una nuova generazione di giovani scrittori e intellettuali, trentenni o poco più, che Sciascia non solo non hanno mai potuto incontrarlo o conoscerlo direttamente, ma neanche esperirlo come parte del loro stesso mondo, come loro reale contemporaneo, per mere ragioni anagrafiche, e ne percepiscono quindi l’assenza in modo più astratto.

Per queste nuove leve, Sciascia è idealmente il fantasma di Sciascia. Fantasma in senso amletico e marxiano, che comunica e s’aggira, che racconta e ammonisce. Che ci chiama all’impegno e al dovere. E continua a vaticinare il futuro, nelle forme della ragione lungimirante. Questa inquietudine spettrale, proprio come l’arto fantasma e con lo stesso lancinante paradosso, denuncia un’assenza, una mancanza, qualcosa di vitale che ci è stato sottratto, ma che ancora ci appartiene.

Di Sciascia, trent’anni dopo, ci manca tutto. Ci manca il respiro internazionale, ampio e profondo, della sua cultura. Ci manca la sua radicalità, la sua nettezza, l’onestà e il coraggio della sua intelligenza tagliente. Ci mancano le sue ostinate, solitarie e temerarie polemiche, troppo spesso più individuali che minoritarie. Il pessimismo della ragione, caustico e anticonsolatorio. Il suo pasolinismo antropologico. La sua ironia, così sottile ed elegante, l’attenzione sociale al fatto culturale e letterario, non meno che quella culturale e letteraria al fatto sociale. La sua sensibilità etica, il suo moralismo, il senso altissimo e indefettibile, dilemmatico e dünremattiano, della Giustizia. La finezza e l’acutezza del suo sguardo analitico e del suo stile sintetico. L’amore esigente e intransigente per la Sicilia, l’interesse minuzioso per ogni aspetto della sua isola, della sua terra, e al tempo stesso il rigetto inesorabile di un sicilianismo volgare e protervo, angusto e meschino, il suo nec tecum nec sine te, così diverso dall’indulgente e acquiescente folclorismo odierno.
E cioè il suo assumere la Sicilia come metafora, ma senza retorica, bensì come metro di giudizio, pietra di inciampo (alla lettera).

Ma ovviamente Sciascia, come ogni grande scrittore, è i suoi libri, i suoi testi, in cui vive ancora il suo pensiero, sempre più attuale, sempre più spiazzante, sempre più refrattario allo schema didascalico.

Il fantasma, insomma, è ancora presente nel nostro dibattito quotidiano, ci parla attraverso i suoi scritti, e la sua voce è tuttora vibrante e significativa.

E d’altronde, la sua opera, già vasta, non ha cessato di estendersi, aggiungendo nuovo materiale, sia narrativo che saggistico, a un corpus di formidabile valore e compattezza, la cui selettiva configurazione originaria non ha sofferto minimamente per le inclusioni postume.
Sciascia si rivela a tutt’oggi una miniera di riflessioni, di spunti, di idee, giudizi, valutazioni, indicazioni, tutt’altro che esaurita, tutt’altro che archiviata.

Il grande lavoro di seminagione che egli fece su giornali, riviste, cataloghi, volumi collettanei, continua a dare frutti. E costituisce un’opera in parte ancora dispersa e sommersa di problematica mappatura.
Un’opera non conchiusa, quindi, soprattutto perché aperta a uno sforzo interpretativo che costantemente si rinnova, si aggiorna, si ridefinisce. E si ricolloca attivamente nella dimensione presente ad ogni rilettura.

Da qui l’esigenza, da molti sempre avvertita, di accostarsi all’opera sciasciana senza pretendere di ridurla a un’unica sintesi, bensì esplorandola dettagliatamente, testo per testo, ovvero seguendone sotto costa le emergenze e la conformazione alla maniera degli antichi cartografi.
Un approccio parziale, si potrebbe forse obiettare, ma che nella sua deliberata particolarità tende, ancorché infinitamente, a farsi sempre più prossimo alla totalità, sebbene questa, come nel paradosso di Zenone, gli sfugga sempre di un passo avanti, di un che di nuovo e di aggiunto che progressivamente aumenta e arricchisce l’insieme.

Tale metodologia analitica sembra tuttora la più appropriata a rendere conto della poligrafia di Sciascia, del suo spaziare tra i generi e le discipline in modo versatile, antidogmatico e antiaccademico, con quella spregiudicata libertà di pensiero e di azione che lo portò a includere nella sua rigorosa disamina logica perfino la possibilità stessa di contraddirsi, non meno che di contraddire, restando sempre coerente con se stesso.



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