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28/06/2013 04:55:47

L'analisi del voto nel Belìce/2. Così muore il consociativismo nato nei lontani anni settanta

Nicolò Catania  viene considerato dai suoi concittadini come l’autentico e naturale erede politico di Culicchia. “E’ un suo figlio spirituale e sono sicuro che in questi giorni starà gioendo per l’elezione del figlioccio”, ci ha confidato uno che di cose partannesi se ne intende. In verità, se dobbiamo dirla tutta, anche gli altri concorrenti alla massima carica cittadina non è che si discostassero molto dal “culicchiano pensiero” dominante. Molti l’hanno considerata una lotta per la vera successione a cui hanno partecipato ben nove liste, fatta eccezione per quella del M5S, c’era di tutto e di più, in osservanza al più puro trasversalismo. Culicchiani erano presenti anche nelle liste che appoggiavano Mangiaracina. Si è consumata una sorta di diaspora degli antichi e recenti fedeli di Culicchia. La giunta uscente del resto sarebbe stata solo di transizione. Giovanni Cuttone nelle vesti di sindaco e Nicolò Catania in quelle di vice  e di assessore ai LLPP. Entrambi culicchiani, avrebbero dovuto gestire il paese in tandem. Un’armonia destinata a non durare per tutta la legislatura, però. Qualche anno prima della scadenza infatti Catania si dimetteva dalla carica, mantenendo però stranamente la presidenza del coordinamento dei sindaci della Valle del Belice. Organismo che ha il compito dei seguire l’andamento della ricostruzione e la ripartizione percentuale dei finanziamenti governativi in favore dei singoli comuni. Oggi, con la sua elezione diretta, è stato impresso il suggello definitivo della successione. Ma non in nome dei vecchi equilibri. Che sono saltati in tutta la Valle. Dopo Fontana di Gibellina, il nuovo sindaco di Partanna ha regalato una bandiera vittoriosa al centrodestra. D’Alì, come si è visto, ha esultato. E’ l’inizio di un nuovo corso? O piuttosto stanno cambiando i protagonisti del nuovo super partito?

Nel suo piccolo, il risultato del comune di Vita potrebbe essere il più emblematico. “Un paese in declino “ lo ha definito il dottore Vincenzo Caputo, un notissimo ed estroverso professionista del piccolo centro belicino. In questa competizione elettorale si è distinto esponendo nei locali della sua farmacia dei volantini con i quali  invitava i suoi concittadini a non votare. Una sfiducia nella politica politicante la sua molto contagiosa alla luce dello scarso numero di votanti. “Il nostro ormai è un paese indecente, sporco, invivibile,” – sono le sue parole –“ rimangono solo le mura diroccate, quartieri senza acqua, casse comunali senza soldi, le famiglie costrette persino l’abbonamento per l’autobus scolastico…e tuttavia si sono spesi una barca di soldi per le festività della Madonna di Tagliavia. In una situazione economica disastrosa ci dovrebbero essere delle priorità”.  Anche qui il risultato ha sovvertito ogni previsione. Che la parabola di Enzo Ingraldi,  fosse nella sua fase calante era percepito da tutti. Ma non al punto di arrivare terzo con notevole distacco dalla vincitrice. Ai tempi del consociativismo imperante sembrava promettere grandi cose il destino politico di Ingraldi. Già vicesindaco di Pietro Leone, l’erede repubblicano in scala ridotta del “mitico” Vincenzo Renda,  per due legislature è stato sindaco, assumendo anche il prestigioso incarico di coordinatore dei sindaci della Valle del Belice. Erano i tempi, quelli, delle vacche grasse e contava molto la gestione della suddivisione dei fondi. Pure indossando la maglia del Pci-Pds-Pd, non era sgradito agli ambienti della Dc e nemmeno a quelli di Forza Italia. Con il deputato berlusconiano alcamese Paolo Lucchese, in modo particolare, i collegamenti erano costanti e indissolubili. Cotanto pedigrée però non si è rivelato sufficiente per una sua risalita delle scale del palazzo di San Francesco. Non solo, ma la lotta all’ultimo voto è stata tra il “forestiero” Angelo Mistretta  e Filippa Galifi. Ha avuto la meglio la dottoressa, già direttrice sanitaria dell’Ospedale di Salemi. Un sogno nutrito da lungo tempo, il suo. Dovrà tenere conto però del fatto che la sua lista ha avuto più voti dei suoi personali. Determinante sarà il peso specifico di ciascuna corrente politica presente nel suo gruppo di maggioranza. Un gruppo anche questo trasversale, dove, accanto al alla destra siedono centristi e persino qualcuno di Sel. Nota per avere un piglio “tacheriano”, la gente da lei si aspetta un certo decisionismo nell’ordinaria amministrazione e nel rapporto con i dipendenti comunali. Ad essi, nel corso del primo incontro, ha già detto senza perifrasi che “la ricreazione è finita!”.

Ma la rottura più eclatante del vecchio gruppo di potere “transpartitico” ( il cui ultimo patto risale alla vigilia delle precedenti elezioni regionali, siglato a Castellammare del Golfo) che “governava” la Valle, si è registrata a Santa Ninfa, l’ex roccaforte rossa. A pronunciare la parola “ex” è un anziano “compagno” che abbiamo incontrato in un bar che si affaccia su quell’improbabile e alienante sorta di autostrada a doppia corsia che attraversa la zona nuova della “laboriosa” cittadina per finire sotto un cavalcavia in cemento e che vorrebbe essere la nuova “strata mastra”. Serve solo per mettere in mostra il passaggio di super Suv inquinanti, ci è parso di capire. “Si sono mangiati, questi qua, pure la sorte capitale !”, sentenzia sornione senza volere essere citato, però. L’allusione è alla progressiva erosione di consensi che ha avuto nel corso degli anni il Pc-Ds-Pd. “Questo qui ora è stato rieletto solo con il 38%  dei voti , sono finiti i tempi del 60-70% ed eravamo solo noi del Pc! Hanno vissuto di rendita”. In effetti i numeri sono molto eloquenti. Ma prima di tutto, si nota che per assicurarsi l’elezione un candidato conigliere avrebbe dovuto raggiungere almeno la quota di duecento preferenze. Una cifra spropositata in rapporto ai 3490 votanti. Segno di una contesa all’ultima sangue, personalistica e priva di progettualità. E così Enza Murania con le 257 preferenze ottenute si è piazzata al primo posto mettendo insieme un terzo dei voti presi dalla sua candidata a sindaco Cristina Giambalvo. Stesso fenomeno con Silvana Glorioso (245) della lista che appoggiava Giuseppe Lombardino.  Che con appena 197 voti di scarto è ritornato alla carica di sindaco. Siamo ben lontani, come si vede dai consensi quasi plebiscitari dei vari Bellafiore e Giaramita del tempo passato. Dei tempi, cioè, in cui un potere trasversale e quasi invisibile stabiliva la non ingerenza nei singoli comuni salvo trovare l’intesa per questioni sovra comunali, come appunto la gestione del post terremoto, le nascenti Asl e più recentemente gli ATO. Nascevano proprio in questo clima: 1° -le rivendicazioni e le “conquiste” dei finanziamento per la Ricostruzione dei Paesi del Belice; 2°-  la presidenza di Pino Giammarinaro all’Asl n°5 di Mazara del Vallo, votata e gestita dalla DC, dal PCI, dal PSI e dal PRI; 3°- la costituzione dell’Ato Belice voluta dalle stesse forze ma con nomi diversi. In ultimo, ma non per importanza, Salemi.  Dove non si è votato. Ma dove già si sentono i primi rumors di candidature prossime venture. A dispetto di quanto sempre sostenuto da Vittorio Sgarbi il comune è stato sciolto per mafia e da un anno circa viene gestito da una triade di commissari presieduta dal prefetto Leopoldo Falco. Si aspetta la fine del loro mandato. Una volta, ai tempi dei cugini Salvo in provincia era in voga il detto: “se vuoi sapere cosa accade politicamente a Palermo o a Roma, vai a Salemi “. Nel senso che la città che fu degli Elimi alcuni millenni fa, negli settanta del secolo scorso oltre ad essere l’epicentro politico in provincia, era anche un punto di riferimento certo per le questioni regionali e nazionali. Un potere che è continuato anche dopo la scomparsa degli esattori e l’avvento degli eredi politici e loro epigoni. Potere che ha cambiato facce e protagonisti ma non le finalità. Gli “sconvolgimenti” di queste ultime elezioni regionali e amministrative potrebbero essere l’inizio di una svolta e di una nuova fase. Se il condizionale è d’obbligo, il mantenimento del controllo dei poteri impone l’imperativo. Insomma, cambiare tutto per restare tutto com’è.

Franco Lo Re