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19/11/2013 10:47:00

Educare alla legalità: Intervista al sostituto procuratore Antonino Di Matteo

Educare alla legalità: Intervista al sostituto procuratore Antonino Di Matteo

Il 26 settembre, a Palermo, è ripartito il processo sulla «trattativa Stato/mafia», che vede come pubblico ministero il sostituto procuratore Antonino Di Matteo. Riforma lo ha intervistato sui temi della lotta alla mafia e della promozione di una cultura della legalità.

Procuratore Di Matteo, Giovanni Falcone diceva: «La mafia è un fenomeno che, come tutti i fenomeni umani, ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Per cui anche la mafia, prima o poi, avrà una fine». Condivide questa valutazione?

«La condivido pienamente. La mafia, però, rispetto ad altri fenomeni criminali ha avuto sempre una caratteristica: quella di cercare di convivere con il potere ufficiale e con la politica. La forza della mafia, e in particolare di Cosa Nostra siciliana, è stata quella di avere creato e mantenuto rapporti significativi con la politica, le pubbliche amministrazioni, l’imprenditoria, le istituzioni. Quindi se vogliamo veramente arrivare alla definitiva sconfitta della mafia dobbiamo puntare a recidere quei rapporti con la politica e le istituzioni che rendono forte la mafia. Rispetto a vent’anni fa, al momento in cui vennero uccisi Falcone e Borsellino, molto è stato fatto sul piano della repressione dell’ala militare della mafia. Ma si dovrebbe fare molto di più per finalmente recidere i rapporti tra la mafia, la politica e le istituzioni. È questo il salto di qualità necessario perché la considerazione di Giovanni Falcone sulla fine di Cosa Nostra diventi finalmente realtà».

Ci pare tuttavia che nei mesi passati numerosi ostacoli abbiano costellato il percorso processuale che lei sta conducendo sulla «trattativa ». Ancora qualche giorno fa, il presidente della Repubblica esortava la magistratura a «ritrovare il senso del limite», alterato – secondo taluni – nei rapporti tra politica e magistratura. Come interpreta lei questo monito?

«Non posso e non voglio scendere nello specifico di questa affermazione del presidente della Repubblica.  Sono un magistrato e come tutti i miei colleghi al momento dell’ingresso in carriera ho giurato sulla Costituzione. So che il magistrato deve svolgere la sua funzione con autonomia e indipendenza da ogni altro potere, e che l’unico limite importante che il magistrato deve conoscere e rispettare è quello della reale applicazione della legge; un rispetto della legge che deve anche essere accompagnato dal rispetto dell’art. 3 della Costituzione, che afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge».


La modifica dell’art. 280 del codice di procedura penale, che fissa i limiti per l’adozione delle misure coercitive, innalza da 4 a 5 anni la soglia per l’adozione della custodia cautelare in carcere, applicabile ora ai «delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni». Che cosa pensa, da tecnico, di questa modifica?


«Ho già avuto modo di esprimere la preoccupazione che questa modifica, rendendo sempre più difficile il ricorso alla custodia cautelare in carcere (anzi rendendolo impossibile anche in caso di gravissime esigenze cautelari in relazione a reati come il favoreggiamento personale) possa eventualmente, in qualche caso, arrecare dei danni sostanziali alle indagini di mafia. Per l’indagine sulla trattativa, anche per il lungo lasso di
tempo trascorso rispetto al momento in cui sono accaduti i fatti, non abbiamo chiesto misure cautelari custodiali nei confronti di nessuno. Quindi non si può certo dire che l’indagine sulla trattativa sarebbe stata più difficile nel caso in cui questa riforma fosse stata approvata prima. La preoccupazione che ho espresso riguarda più in generale un’attenuazione dell’efficacia della custodia cautelare a tutela delle indagini per reati come il favoreggiamento o altri reati contro la pubblica amministrazione, che molto spesso risultano essere assolutamente decisivi per gli scopi delle organizzazioni mafiose. Da questo punto di vista ritengo che alcune riforme spesso non tengono conto delle ricadute che possono avere anche in materia di indagini e processi di criminalità organizzata».


Il processo è ricominciato. Considerate le numerose azioni messe in atto per ostacolarlo e delegittimarlo, quanto tempo potrebbe ancora passare prima che si raggiunga un verdetto finale?

«Sarà certamente un processo lungo e complesso, ma non posso fare previsioni sulla durata. Mi sembra più importante avere la consapevolezza di un fatto: che uno Stato che voglia essere veramente credibile non potrà mai – nonostante il passare degli anni – omettere di fare tutti gli sforzi per capire che cosa veramente sia successo in quegli anni. Indagare su quei fatti, su quelle pagine buie della nostra democrazia, non significa, come pure è stato detto da autorevoli esponenti politici, sprecare risorse pubbliche, perdere tempo che si potrebbe dedicare a vicende più attuali. Significa cercare di fare piena luce su aspetti della nostra democrazia che ci aiutano a capire anche il presente. Rinunciare a indagare su quei fatti significherebbe probabilmente regalare alle organizzazioni mafiose in futuro un’arma micidiale, quella del ricatto nei confronti delle istituzioni. Se in quegli anni si sono verificati dei momenti in cui parte delle istituzioni hanno cercato il dialogo con Cosa Nostra, le istituzioni oggi devono fare di tutto per fare venire fuori quella verità e non per nasconderla».


Sembra che le persone comuni siano indotte a pensare alla trattativa come a una cosa presunta o, nella migliore delle ipotesi, a un fenomeno del passato, un tragico errore da rimuovere dalle coscienze e dalla memoria. Ma se il processo dovesse consegnarci la verità che molti temono, vorrà dire che i tentativi messi in atto per ostacolare le indagini sono indizi che ci potranno autorizzare a pensare che la trattativa continui anche oggi?


«Non ho elementi (né se li avessi potrei esternarli in un’intervista) sul fatto che eventualmente continuino anche oggi rapporti di dialogo tra le organizzazioni mafiose e la politica, però sono convinto che la mafia ha sempre cercato la convivenza con le istituzioni statali. Cosa Nostra non si è pregiudizialmente schierata contro le istituzioni; ha invece cercato sempre di dialogare con esse, di trovare un terreno di spartizione del reciproco potere, degli spazi di comune interesse e di “pacifica convivenza”. Da uomini di legge, questo non possiamo accettarlo. Spero che lo Stato, qualunque sia l’appartenenza politica di chi ci governerà, abbia ben chiaro che con le organizzazioni mafiose, per nessun motivo e in nessuna condizione, si può mai dialogare. Per lo Stato dialogare con la mafia significa riconoscerle un potere che non può avere, significa legittimarla agli occhi di tutti i cittadini e riconoscerla come un potere che può avere un peso nell’andamento della vita pubblica».


Alcuni mesi fa i giornali titolavano: «È arrivato il tritolo per Di Matteo». E subito i cittadini, molti giovani, si sono mobilitati in segno di vicinanza al giudice coraggioso della trattativa. Che effetto le fanno le minacce, la solidarietà della gente, il silenzio delle istituzioni e della politica?

«Per chi fa il nostro lavoro le minacce possono essere messe nel conto. Certamente, in questi casi avvertiamo la paura, ma essa dev’essere superata dall’orgoglio di continuare a fare il nostro lavoro senza condizionamenti da parte di nessuno, tanto meno da parte di chi ci minaccia. L’isolamento istituzionale – che non voglio commentare nel mio caso – comunque anche in passato ha amareggiato tanti magistrati, anche poco prima di eventi tragici. Sembra quasi, nel passato, essere stata una tappa obbligata. La solidarietà di tanta gente, soprattutto di cittadini comuni non legati a particolari appartenenze politiche, è uno stimolo assolutamente importante, un’iniezione di fiducia e di entusiasmo per cercare di continuare a lavorare con il massimo impegno. Personalmente questa solidarietà mi ha ulteriormente ricordato quanto bello e importante sia il lavoro del magistrato e quanto valga la pena farlo con spirito di servizio nei confronti dei cittadini. In fondo battersi per il rispetto della legge significa battersi per il rispetto dei diritti dei più indifesi della società».


Nei ultimi vent’anni, dalle stragi del ’92-’93, il movimento per la legalità è cresciuto e si è radicato nel senso comune, nei giovani e nei meno giovani; ma cosa secondo Lei c’è ancora da fare nel nostro Paese sul fronte dell’educazione ai valori di legalità e giustizia?


«Certamente tanto è cambiato in meglio rispetto a vent’anni fa. Quando ero ragazzo, era difficile anche semplicemente discutere di mafia o di mentalità mafiosa nelle scuole, nelle famiglie, perfino tra amici attorno a un tavolo. Oggi non è più così, però tanto rimane ancora da fare. Intanto è sempre auspicabile che alle parole dei dibattiti seguano i fatti, e che ciascun cittadino si assuma le proprie responsabilità nel cercare, anche con i piccoli gesti, di contrastare la mafia e ancor prima quella mentalità mafiosa che è la mentalità del favore, della raccomandazione, del privilegio odioso, così diffusa nel nostro paese. E poi è necessario che le istituzioni diano il giusto esempio: la politica si caratterizzi per essere una politica di passione e di servizio, la magistratura sia una magistratura di servizio, di coraggio e di vera indipendenza».


Quest’anno come evangelici abbiamo ricordato i 50 anni dal manifesto antimafia affisso dai valdesi a Palermo dopo la strage di Ciaculli. Quale dovrebbe essere oggi il ruolo delle comunità ecclesiali nella lotta alla mafia?

«Parto da una constatazione: il Vangelo di Cristo costituisce esattamente l’antitesi dei finti valori della mentalità mafiosa. Il semplice rispetto – con i fatti – del messaggio evangelico nell’approccio con il prossimo e con la cosa pubblica costituirebbe un antidoto alla diffusione della mentalità dell’illegalità. Sogno e spero che le chiese e i cristiani rispettino sempre l’insegnamento evangelico del coraggio, della verità, di chiamare le cose con il loro giusto nome e di avere un parlare che sia semplice, univoco e coraggioso. Penso che l’impegno dei cristiani nella società, proprio perché collegato a un messaggio evangelico così chiaro, non possa che fare un gran bene anche alle istituzioni laiche».

di Avernino Di Croce e Piera Lepore Pubblicato il 10 ottobre 2013 su 'Riforma' n. 38