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20/02/2014 08:50:00

Trent'anni dopo la prima Intesa con le chiese metodiste e valdesi

La firma il 21 febbraio 1984 e l’approvazione della prima Intesa prevista dalla Costituzione italiana non giunse improvvisa: fu infatti il coronamento di un lungo lavoro teologico, giuridico e politico condotto dalla Chiesa valdese (Unione delle chiese metodiste e valdesi) che possiamo far risalire già ai primi anni del dopoguerra. Nel clima della ricostruzione materiale e morale dell’Italia, un gruppo di teologi sentì il bisogno di ripensare i modi e le forme della Chiesa in uno Stato democratico che, in virtù dell’articolo 8 della Costituzione repubblicana, stabiliva il principio di “uguale libertà” di tutte le confessioni religiose. Seguì una lunga discussione, per molti aspetti meramente teorica dal momento che, complici le forze d’opposizione, l’Italia democristiana di quegli anni non aveva alcuna intenzione di mettere mano alla revisione del Concordato e quindi all’utilizzo di un nuovo strumento di regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. La tendenza era semplicemente a ignorarle, volendo così confermare l’assunto che l’Italia era e rimaneva sostanzialmente cattolica e che la vecchia legge sui “culti ammessi” offriva tutele più che sufficienti alle minoranze.

Si deve all’analisi giuridica e all’azione pubblica di Giorgio Peyrot il tentativo di scalfire questa impostazione affermando che le chiese della Riforma erano altro rispetto al cattolicesimo, e che il loro diritto non si radicava nelle norme statali né in quelle canoniche – spesso intrecciate tra loro – ma nel libero annuncio dell’Evangelo. L’idea chiave di quel ragionamento era che una chiesa protestante dispone di un ordinamento esterno rispetto a quello dello Stato, fondato sulla sua teologia, sulla sua ecclesiologia, e sulla sua stessa vocazione. L’eco teologica della teologia di Giovanni Miegge e della scuola barthiana era più che evidente. In quei decenni, le chiese evangeliche denunciarono ripetutamente l’inazione del governo e del parlamento relativamente alle norme costituzionali in materia di libertà religiosa senza che questo producesse risultati apprezzabili.

Il referendum sul divorzio del 1974, però, scosse il quietismo concordatario e per la prima volta dette la misura di un’Italia molto meno “cattolica” di come la si interpretava. Questa misura aumentò ulteriormente nel 1981, alla luce dei risultati del referendum sull’interruzione volontaria della gravidanza; negli stessi anni, inoltre, la Corte costituzionale “picconava” le norme sui “culti ammessi” e denunciava l’incompatibilità tra alcune formulazioni concordatarie – quella cattolica come “sola religione” dello Stato, per esempio – e il dettato della Carta. Fu in quel contesto che il presidente del Consiglio Bettino Craxi ritenne che vi fossero le condizioni per fare quello che forse nessun democristiano avrebbe mai potuto fare: mettere finalmente mano a quella riforma concordataria che si imponeva da tempo e quindi, sia pure in subordine, dare applicazione all’articolo 8 della Costituzione.

Trent’anni dopo possiamo tentare un bilancio di quella svolta e dobbiamo riconoscere che le Intese – che oggi regolano i rapporti di undici confessioni cristiane e non cristiane – hanno contribuito a rendere visibile quel pluralismo religioso che in Italia fatica a emergere, E’ questo un risultato che va sottolineato e in un certo senso rivendicato. Ma le intese sono state anche un banco di prova per le confessioni religiose, a iniziare dalla Chiesa valdese: l’applicazione dell’articolo 8 ha imposto a noi ed a altri una riflessione su che cosa significa stare nello spazio pubblico. Le intese ci hanno educato a riflettere, parafrasando Kennedy, non solo su quello che lo Stato può dare alle confessioni religiose ma anche su quello che le confessioni religiose possono dare allo Stato in termini di sussidiarietà, cultura, relazioni globali, impegno morale e civile.

Dalla prima Intesa sono passati trent’anni ma resta invece in pieno vigore la vetusta legge sui culti ammessi di epoca fascista (1929), e quindi il percorso della libertà religiosa resta, a oggi, un percorso incompiuto. E’ in questo quadro che la nostra Chiesa continua il suo impegno per la libertà religiosa, la nostra e quella di tutti. E’ questa la missione che sentiamo con forza: utilizzare il primato e l’autorevolezza che ci deriva dall’essere stati la prima confessione a stipulare un’Intesa con lo Stato a sostegno di quanti, in Italia e nel mondo, si vedono privati di uno dei principali diritti umani: quello alla libertà di credere, alla libertà di non credere e alla libertà di credere diversamente dalla maggioranza.

Eugenio Bernardini

19 febbraio 2014