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04/05/2014 06:15:00

Adriano Sofri: "Che cosa dicono le difese in chiusura del processo Rostagno"

A Trapani sta per concludersi in Corte d’Assise il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno. Le difese degli imputati appartenenti a Cosa Nostra –Vincenzo Virga come mandante, Vito Mazzara come esecutore- stanno completando le arringhe, poi le repliche e infine il ritiro in Camera di Consiglio, probabilmente il prossimo 7 maggio, e la sentenza. L’informazione sul processo è abbastanza paradossale. Per un verso, Radio Radicale e il blog curato da giornalisti locali, specialmente da Rino Giacalone, permettono a chiunque di seguire le udienze con una partecipazione cui manca solo (non è poco, naturalmente) l’aria che si respira dentro e attorno all’aula. Per un altro verso, stampa e televisioni nazionali ignorano largamente il processo, benché vi si sciolga un nodo cruciale di questioni civili e morali incarnato nel destino d’eccezione di Mauro Rostagno, e vi si decida anche, più imprevedibilmente, del futuro della giustizia penale italiana, dopo l’ingresso dirompente e romanzesco che nel processo ha fatto la genetica forense.
Io però ho chiesto qui oggi uno spazio supplementare per sbrigare un paio di argomenti particolari, nemmeno influenti sull’esito, ma esemplari della spregiudicatezza con cui le parti svolgono il loro compito processuale. La spregiudicatezza è del resto autorizzata e inevitabile, perché il processo in uno stato di diritto è davvero il modo peggiore di amministrare la giustizia, a parte tutti gli altri.
Le garanzie che il processo deve concedere a tutte le parti coincidono con la sospensione provvisoria delle garanzie che la vita civile riconosce ai cittadini. Tutto può essere detto, insinuato, gridato. Nel processo Calabresi, che mi aveva per imputato, un avvocato di Parte civile gridò che “Mauro Rostagno non è stato ucciso dalla lupara della mafia, ma di Lotta Continua”. Ora, nel processo per l’assassinio di Mauro gli avvocati della difesa, pur rinviando a “poteri forti” sopra e fuori dalla mafia, tornano a insinuare la complicità della sua compagna, Chicca, e parlano di sua figlia Maddalena “impazzita dal dolore”: dove l’accento non cade sul dolore, ma sulla pazzia. Chicca, dicono, aveva nella comunità Saman un amante violento, che “cinque giorni prima” del delitto –anzi “48 ore prima” del delitto, versione dell’arringa finale- aveva tentato di dar fuoco con una tanica di benzina alla stanza di Mauro con lui dentro. Ora: Chicca e Mauro, nel tempo che precede il delitto, non avevano amanti che non fossero l’una per l’altro; e nessuno aveva tentato di dar fuoco a Mauro e alla sua stanza. Ciò che dà origine a questa invenzione era invece successo esattamente due anni prima, dunque senza alcun rapporto col delitto, e nella forma ben diversa che vi illustro, chiamando a riferirne il più attendibile dei testimoni, Mauro Rostagno. L’8 ottobre 1986 Mauro scrive al suo amico Renato Curcio, che è in carcere, una lettera molto lunga e particolarmente significativa: perché Mauro vi svolge una ricapitolazione e un bilancio dell’estate appena trascorsa, e perché questa è l’ultima lettera di una stagione della sua vita che sta per cambiare radicalmente, con l’inizio della collaborazione stabile alla televisione Rtc, che presto ne investirà in pieno interessi ed energie mettendo in secondo piano l’attività di terapeuta e animatore della comunità. Nella lettera sono contenuti alcuni brani essenziali per la questione che qui ci riguarda. Ecco il primo:
"La presenza di parecchi ragazzi agli arresti domiciliari qui in comunità ha scatenato un bel casino, poiché alcuni di questi sono qui non per loro scelta ma perché inviati dai magistrati e ne hanno fatte di tutti i colori, come scappare di notte, scassinare le case dei contadini qui attorno, rubare, portare vino in comunità e ubriacarsi, si sono menati selvaggiamente, uno ha cercato di dare fuoco alla casa dove abito io con Chicca e Francesco, eccetera. Uno è scappato e poi si è suicidato gettandosi dal 12° piano di un palazzo a Palermo".
“Uno ha cercato di dare fuoco alla casa dove abito io con Chicca e Francesco…”: è il capo del filo che, srotolato fino a trasferirlo a due anni dopo e gonfiato fino a farne il tentato omicidio che precede di 48 ore il riuscito omicidio, tirano ora le arringhe dei difensori degli imputati mafiosi. Mauro dunque lo cita all’interno di un elenco di imprese “di tutti i colori”, come quelle che avvengono dentro e attorno una comunità così peculiare. Più avanti nella lettera, e senza rapporto con l’elenco, arriva il secondo brano pertinente:
"Chicca si è “innamorata” di uno dei “tossici” e per un po’ di tempo mi sono ricordato della gelosia e della paura senza forma e del tempo che diventa troppo lungo e molle e obliquo.
C’era un ballo da ballare e la musica non era delle più “gradite”.
Bene".
Mauro e Chicca –la sua compagna di tutta la vita, la madre di Maddalena- si autorizzano reciprocamente altri amori: in realtà a Mauro succede più che a lei. La libertà mutuamente riconosciuta non vuol dire purtroppo che non se ne soffra; e che il ripudio della gelosia immunizzi dal sentirsi gelosi e svuotati e spaventati. Del resto Mauro ha messo tra parentesi quell’ “innamorata”: vuol dire, e dirsi, che Chicca crede di essersi innamorata, vuol dire che è una cosa che passa.
C’è un terzo breve brano, più avanti, in cui Mauro racconta di un suo contemporaneo amore, in realtà precedente, quello cui Chicca ha voluto reagire:
"Per 2 giorni sono andato via, al mare, con una ragazza, a nuotare e scopare e mangiare la luna".
Cose note: della ragazza, una molto più giovane ospite della comunità, si conosce nome e cognome, agli atti del processo. La relazione di Chicca e quella di Mauro finiscono nel giro di giorni, nel resto della lettera le cose sono tornate al loro posto.
"Chicca ha acquistato un macchinario per la falegnameria e un forno per fare le ceramiche!"
Era questa la storia vera dell’estate 1986, raccontata pubblicamente da Chicca e altri testimoni, raccontata da Mauro in una lettera privata destinata da lui a restar tale. Nell’arringa della difesa, ventisei anni dopo, la storia è stata così promossa: nel settembre 1988 Mauro, 48 ore prima d’essere ammazzato, è oggetto di un attentato incendiario con una tanica di benzina da parte dell’amante geloso e violento di Chicca.
Farò ora un secondo esempio della relazione fra i fatti accertati, o facilmente accertabili, e la piega che subiscono al riparo dell’immunità delle parti in processo. Uno dei personaggi più tragici e violati di questa vicenda è una donna, si chiama Monica Serra, nel 1988 aveva venticinque anni e un bambino piccolo, era con lui ospite di Saman per curare la propria dipendenza dalla droga. Mauro la prese come collaboratrice alla sua televisione, una settimana prima dell’agguato. Il 26 settembre tornavano in comunità dopo il programma serale, Mauro guidava, Monica gli era seduta accanto. I primi proiettili di fucile –un Breda calibro 12- sfondarono il lunotto e colpirono Mauro, che ebbe il tempo di dirle di rannicchiarsi sotto il sedile, poi fu finito da due colpi di revolver 38, sparati dal finestrino del guidatore, a brevissima distanza. Monica restò illesa, sentì il motore di un’auto che ripartiva, uscì dall’auto e corse terrorizzata fino alla comunità. Da allora, ci fu sempre qualcuno, inquirenti o gente di buonissima volontà, ad accusarla di aver mentito, di essere stata complice degli assassini, che l’avrebbero fatta scendere dall’auto prima di compier l’opera, perché era impossibile uscire illesa da una simile circostanza, e perché tutto di lei suonava inverosimile e falso. C’è, nel curriculum dell’imputato di questo processo –imputato, finora, e non condannato- Vito Mazzara, a suo tempo campione di tiro, un omicidio impressionante per esattezza ed efferatezza, che gli è costato uno degli ergastoli definitivi che sta scontando. La vittima fu, il 23 dicembre 1995, Giuseppe Montalto, un agente penitenziario che all’Ucciardone aveva sequestrato un bigliettino passato tra i boss detenuti. Montalto fu ucciso in auto, e restò illesa sua moglie, che gli sedeva affianco, con la figlia di 10 mesi in braccio e un’altra ancora in grembo. In un modo analogo era stato ucciso nel 1980 Piersanti Mattarella, in auto con la moglie e il figlio. Monica Serra, vittima di una violenza che avrebbe terribilmente segnato i suoi anni, è stata anche vittima della persecuzione perversa di chi volle additarla come complice –fino a essere incarcerata, nel 1996, in una sciagurata iniziativa giudiziaria.
Il 30 aprile scorso, un avvocato della difesa ha ripetuto gli argomenti della persecuzione, e si è fermato insistentemente su un dettaglio –in Assise, specialmente quando una causa sembra persa, bisogna far colpo sui giudici popolari. Ascoltata al processo come testimone, ha detto, la Serra non solo era reticente e mentiva, ma seguiva un copione dettato da un oscuro suggeritore, “uno sconosciuto con gli occhiali seduto in seconda fila nei banchi delle parti civili, che lei continuava a guardare invece di guardare la Corte”. Tant’è vero che il Presidente aveva allontanato lo sconosciuto facendogli prendere posto in fondo all’aula, nei banchi del pubblico. L’argomento suggestivo dell’avvocato mi ha spinto a chiedergli, alla fine dell’arringa, chi fosse l’individuo che secondo lui imbeccava la Serra: mi ha detto di ignorarlo. Ho chiesto anche al P.M. Del Bene, che lo ignorava anche lui, sebbene non annettesse alla questione alcun rilievo. Ho chiesto infine a Maddalena Rostagno, che quel giorno, come tante altre volte, era stata presente. Ma certo, mi ha detto, era il marito di Monica, l’aveva accompagnata, e io l’ho invitato a venirsi a sedere vicino a me e al mio avvocato, senza pensare che potesse sollevare un problema; poi andò a sedersi fra il pubblico.
Questo il controllore della deposizione della teste Monica Serra: suo marito, un signore che non ebbe mai a che fare con luoghi e circostanze della vicissitudine di sua moglie. Vicissitudine che per Monica Serra si concluse il 14 settembre 2013, per un infarto o un aneurisma cerebrale. Al processo la notizia non era pervenuta: gliela dò io, perché sappiano che stanno parlando di una persona che scampò “miracolosamente” a un agguato omicida, non al suo strascico, e che non avrà riparazione.

Adriano Sofri - pubblicato su Il Foglio del 3 Maggio 2014