Jossa: "Vi spiego perché la lingua italiana è la più bella del mondo"
di Marco Marino
È la grande pasionaria di tutta la storia della Penisola, la nostra lingua, l'italiano; è riuscita a resistere per secoli – dalla definizione di volgare illustre di Dante Alighieri all'Unità d'Italia – su pagine che potevano leggere davvero in pochi e che all'insaputa di molti trasportavano fino a noi un immaginario di parole, suoni, idee che oggi ci permettono di dire di essere italiani.
È bella la nostra lingua, per Stefano Jossa è La più bella del mondo, come recita il titolo del suo nuovo saggio edito da Einaudi: una lunga riposta a quelle domande che interrogano tutti sul perché continuare ad amare una lingua dappertutto avvilita, dal passato ingombrante, dal futuro incerto. È la riposta di chi ha compreso che «le parole/ sono di tutti e invano/ si celano nei dizionari» e vuole darci la possibilità di rimpossessarcene.
E vuole soprattutto rispondere a chi pensa che le parole della lingua di Dante e di Leopardi non siano più ormai l'«humus nascosto», il terreno ancora fertile su cui strenuamente sopravvive la speranza di ritrovarci, come comunità, e di leggerci, come il multiforme paese che l'Italia è.
Di questo saggio abbiamo modo di parlarne con il suo autore, che insegna Letteratura, cultura e lingua italiane presso la Royal Holloway University of London.
«La più bella del mondo» è un libro dedicato alla bellezza dell'italiano. Alla fine dell'introduzione aggiunge che questa dedica è scritta «con l'affetto che può provare solo chi nella vita quotidiana si trova a dover parlare una lingua non sua». Lei vive e insegna in Inghilterra, da cosa nasce questo suo desiderio di dichiarare tale amore per la nostra lingua? Quando, invece, in Italia questo stesso sentimento inesorabilmente declina...
Credo che il libro porti uno sguardo "da lontano" su qualcosa che siamo abituati a vedere troppo da vicino, fino a dimenticarci che si tratta di una compagnia quotidiana. È un po' un libro da figliuol prodigo, che torna a casa dopo un lungo periodo di esplorazione e sperimentazione dell'altrove: tornato, porta con sé lo sguardo sempre disposto a sorprendersi del viaggiatore, ma anche la consapevolezza vissuta che tutto il mondo è straniero, a partire da ciò che siamo abituati a considerare casa o patria. Entrare nel proprio territorio come un territorio straniero credo che sia un imperativo cui il critico deve sempre attenersi: per amare il proprio oggetto in quanto diverso anziché simile. La lingua non conferma la nostra identità, ma ci costringe a interrogarci su di essa, farne una scelta anziché un dato, problematizzarla e valorizzarla. Probabilmente in Italia l'amore per la lingua sta declinando perché sta declinando la capacità di interrogarsi su di sé, le proprie scelte, il proprio stare insieme come individui e come comunità. Di qui i troppi libri sulla lingua che si riducono o a istruzioni per l'uso o a collezioni di battute, come se la lingua fosse o strumento da tecnici o occasione di derisione. Quello che sta declinando allora non è tanto l'amore per la lingua (la lingua vende, eccome, in libreria), ma l'amore inteso come dedizione, cura e complicità, anziché passione violenta e prevaricatrice. A me invece interessava la lingua come esperienza, che può fare chiunque, ma è tanto più interessante quanta più esperienza di altro s'innesta su questa esperienza della lingua. L'altro è per me prima di tutto la letteratura, che rende viva e creativa la lingua: proprio perciò una letteratura che comprenda anche le filastrocche, gli scioglilingua, le canzoni e i film. Cosa c'è di più bello delle rime che fanno i bambini quando cominciano a giocare con la lingua, in un mondo in cui "il porto vuole sposare la porta; / la viola studia il violino; / il mulo dice: “Mio figlio è il mulino”; / la mela dice: “Mio nonno è il melone”; / il matto vuole essere un mattone.", come suggeriva quel genio di Gianni Rodari?
«L'italiano non è l'italiano: è il ragionare […] Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto». In Una storia semplice di Sciascia queste parole vengono dette da un vecchio professore ad un suo ex allievo, diventato magistrato. È stato profetico Sciascia ad immaginarsi i congiuntivi di Di Maio o di Antonio Razzi? Come si può amare una lingua che viene continuamente svilita dalle figure più rappresentative dello Stato?
La domanda mi costringe a parlare di politica: e politico è, in fondo, ogni discorso sulla lingua, perché come parliamo ci definisce in relazione agli altri. Se chi parla male è al potere, è perché chi parla bene viene percepito come infido e inaffidabile: parlar bene, per molto tempo, è sembrato in Italia solo esercizio di potere, identificato con il latino dell'avvocato Azzeccagarbugli nei Promessi Sposi o il burocratichese con cui se la prendeva giustamente Italo Calvino. Ciò è dipeso dal fatto che chi parlava bene spesso non era intelligente, ma solo competente: cioè sapeva bene la lingua, per privilegio di classe, per studio di qualità o per altre ragioni non troppo dissimili, ma non si preoccupava in alcun modo di usarla come strumento comunicativo e persuasivo. Ciò ha portato all'emergere di chi si è contrapposto a loro nel nome di un parlare naturale che era antitetico ideologicamente al parlare culturale: con l'errore di prospettiva imposto dal fatto che quel parlare naturale non era affatto naturale, ma piuttosto costruito retoricamente per interpretare il ruolo dell'alternativo o antagonista. La conseguenza è che dal loro parlar male alcuni politici traggono vantaggi elettorali, ma da quel parlar male i loro elettori trarrebbero solo esclusione, debolezza o marginalità, perché non possiedono gli strumenti d'accesso al ragionamento e alla grammatica, cioè a tutto il sistema su cui fondiamo la nostra conoscenza del mondo, inclusa la politica. La grammatica a questo serve: a garantire parità di accesso e di possibilità; mentre l'uso, il manzoniano Signor Uso, comporta spesso il rischio di accettare passivamente dei rapporti di forza che si sono imposti senza rispettare un arbitraggio più imparziale. La lingua di alcuni politici è un tentativo di mettere da parte l'arbitro, cioè la grammatica e la legge, a favore dei rapporti di forza.
Nel suo saggio scrive di una grande contraddizione che segna la lingua italiana: «da una parte è una lingua letteraria, ma dall'altra questa identità è percepita come un peso». È la lingua del Ei fu. Siccome immobile di Manzoni e delle chiare sere d'estate di Baglioni. È possibile superare questa contraddizione? Sono davvero due mondi, l'italiano letterario e quello popolare, inavvicinabili e nemici?
L'amore per la lingua di Dante e l'odio per la lingua della letteratura vanno spesso di pari passo. Bisognerà fare in modo, allora, che la seconda parola non sia più connotata negativamente. Secoli di uso della lingua letteraria a fini di potere, snobistici o retorici, hanno portato a un capovolgimento di valori; ma chi parla male resta ancora sorpreso dalla bellezza e dalla forza della lingua di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Leopardi e Montale. "Amor ch'a nullo amato amar perdona" è un verso che hanno preso a prestito Venditti, Jovanotti e Raf, a riprova del fatto che la distinzione tra alto e basso non ha più senso: lo stesso Dante amava immergersi nel comico, sperimentando tutti i registri linguistici, come prova la tenzone con Forese Donati, che spesso viene paragonata ai dissing dei rappers contemporanei. Lucio Battisti parlava sempre di "poesia", come se volesse distinguere tra la lingua appassionata e vera della poesia e quella forbita e ipocrita della letteratura. Le camice di forza non servono. La lingua va presa perciò come fuoco d'artificio, spazio d'inventività e strumento di creatività. La forbice tra normatività e semplificazione, paura dello sbaglio e bisogno di comunicazione, può essere superata imparando a distinguere i contesti, per cui "troppo inglese" può essere tanto un limite quanto una risorsa, così come il famigerato "errore" può essere un gesto di violenza oppure un salto di gioia. La lingua è il territorio di una battaglia quando la consideriamo politicamente, ma si libera di questa battaglia quando la prendiamo esteticamente. Perciò credo che sia opportuno parlare di bellezza: per sottrarre la lingua dagli schieramenti di parte e farne di nuovo la base della nostra convivenza civile. Che è tanto più soddisfacente quanto più diventa esperienza di partecipazione e condivisione anziché distanza e barriere.
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