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11/08/2019 09:35:00

Menz'austu

 

Ferragosto, giorno dell’Assunzione di Maria in cielo, è festa siciliana. Per generazioni le neonate hanno preso il nome di Assunta. Ormai l’usanza s’è persa. Resta la festa religiosa. E quella laica: gastronomica. 

A me, tuttavia, la tradizione imponeva di trascorrere la giornata del 15 agosto nel paesino peloritano di Gallodoro, quello da cui trae origine Letojanni. Luogo di avi e di parenti.

Sino agli anni ’90, cedendo alle insistenze di due cugine, vere custodi delle antiche usanze, di frequente abbandonavo Letojanni, il mare e la marea di turisti, per raggiungere il villaggio. Anche nelle giornate più calde vi si gode la ventilazione dell’altitudine e la freschezza di una sorgente d’acqua montana che, appunto, è chiamata frischiola.

A Ferragosto del 1985, accettai l’invito e, nel pomeriggio, mi trasferii, con mia moglie, a Gallodoro.

La festa è serale. Prima del tramonto, il rito d’inizio: l’incontro della locale confraternita religiosa (dedicata alla Madonna), con le confraternite dei centri abitati vicini. Si svolge in una radura sulla sommità di un colle (dalla veduta mozzafiato), secondo un cerimoniale ultracentenario, costituito da canti e auspici religiosi.

Il programma prevede –a buio- l’«uscita della Madonna»: la statua della Vergine, custodita tutto l’anno nella nicchia di una cappella, dopo che l’artificiere della festa fa scoppiare un colpo fortissimo (la bravura del fuochista si misura nella rumorosità dei «botti»), spinta leggermente da una leva azionata dal parroco, imbocca i binari, appositamente montati, che dopo una breve discesa, la depositano nella piazza principale.

L’andatura è traballante e nella semioscurità (l’illuminazione è spenta e solo candele e lumi rompono la tenebra) la statua sembra lievitata: una specie di miracolo, dovuto all’intelligenza dell’autore del sistema.

«E il mangiare?» Vi domanderete, consapevoli che tutti i salmi finiscono in gloria e che non c’è festa senza stramangiata. 

Per fortuna, io e mia moglie eravamo capaci di contenerci, limitandoci agli assaggi, in modo che le cugine non ci rimanessero male e la tradizione fosse rispettata.

Quella cena iniziava ancora a giorno, abbastanza presto, in modo da terminare prima della processione o, se non ci si riusciva, prima che la Madonna passasse vicino al giardino del nostro banchetto, dal menu ormai limitato: antipasti, due primi (tra i quali spiccavano sempre i sicilianissimi maccheroni), due secondi, carne e pesce, il fritto all’italiana e i dolci casalinghi.

Il vino di Gallodoro supera i 15° e occorre assolutamente evitarlo.

L’appuntamento finale è a mezzanotte. La Madonna è già rientrata in chiesa e a quell’ora puntuale come un orologio svizzero, il cav. Salvatore Rodolico dà fuoco alle polveri.

Gallodoro conta circa 400 anime. Il giorno di Ferragosto arrivano alcune migliaia di gitanti, che poi occupano i tavoli apparecchiati nelle strade.

Quando viene sparato l’ultimo colpo, tutti si riversano sulla provinciale, talché percorrere gli 8 km che separano il paese dalla nazionale diventa un interminabile sofferenza.

Per questa ragione, alle 23 e 30, salutammo tutti per rientrare.

Giunti all’ingresso Est di Letojanni, attraversati i binari della ferrovia, imboccammo l’ultima discesa (200 ml) in fondo alla quale c’era la mia casa. Fummo però costretti a fermarci: la folla occupava la strada. Stranamente, le luci del grande androne erano accese. 

Andando avanti, capimmo che la gente era attirata proprio da qualcosa che stava accadendo lì, nel pianterreno di casa mia. 

Ci volle poco per arrivare: dentro, appesa a una catena, c’era una grossa cernia di fondale (23 kg scoprimmo poi). Pescata da mio figlio con l’asciugamani.

Come? Già, era per mare con un amico, quando si sentì un rumore strano. Si girarono e videro che l’acqua a pochi metri da loro era agitata. Con cautela, si avvicinarono: una cernia boccheggiava in superficie. Dopo vari tentativi, legati tra loro due asciugamani, la imbragarono e la tirarono a bordo.

Percorso –per farsi vedere- il corso principale con la preziosa preda attaccata a un remo, l’avevano appesa lì. In mostra.

Il fotografo della Gazzetta del Sud fece il suo mestiere: il giornale del 17 ebbe un ampio servizio fotografico.

Insomma un lieto fine per noi, dopo l’iniziale paura.

E un lieto fine anche per una ventina di persone con le quali consumammo quel bel pescione nel ristorante di un amico. 

Come mai era accaduto ciò ch’era accaduto?

Ispezionata la vittima, scoprimmo che in testa, proprio dietro l’occhio, c’era una ferita profonda: un sub l’aveva colpita e non era riuscito a estrarla dalla tana. 

Solo dopo, sofferente, era venuta in superficie, dove, finalmente, era stata pescata. Con due asciugamani.

Don Fulippo Laganà, vecchio pescatore, trovandosi al bar Cacopardo del rione Baglio, commentò: «Asini e picciriddi Dio l’aiuta!»



Domenico Cacopardo è nato nel 1936. Siciliano di Rivoli (in provincia di Torino), è vissuto in varie città italiane, condotto dagli impegni professionali. Consigliere di stato sino al 2008, è stato anche magistrato per il Po (Parma) e magistrato alle Acque (Venezia). Collabora con vari quotidiani e periodici. Per Marsilio ha pubblicato Il delitto dell’Immacolata (2014), Semplici questioni d’onore (2016) e Amori e altri soprusi (2017), Agrò e i segreti di Giusto (2019).


www.cacopardo.it