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16/12/2019 06:46:00

L'eredità di Sciascia, Paolo Squillacioti: "E' un classico della letteratura europea"

 di Marco Marino

 

Continuano le nostre note a margine del trentennale della morte di Leonardo Sciascia.

 

Sull’eredità letteraria dello scrittore racalmutese oggi abbiamo voluto interrogare il professor Paolo Squillacioti, da più di dieci anni curatore delle opere sciasciane per la casa editrice Adelphi. Dopo i volumi che hanno raccolto la produzione narrativa, le inquisizioni e le memorie, poche settimana fa è stato pubblicato l’ultimo tomo che comprende i saggi di argomento letterario, storico e civile.

 

A leggerli e rileggerli, i volumi adelphiani delle «Opere» di Sciascia sembrano rispondere al paradosso della nave di Teseo: sono gli stessi libri che per mezzo secolo hanno segnato le sorti intellettuali e politiche del nostro paese, eppure ai nostri occhi risultano nuovi, nuovissimi, alcuni persino inediti. A quale sentimento si ispira/risponde il suo lavoro sciasciano?

 

Nel descrivere l’opera di Sciascia lei ha colto propriamente la natura di classico che ormai la contraddistingue e che sento evocare sempre più spesso: un classico della letteratura europea del Novecento. E i classici hanno appunto questa caratteristica, di continuare a parlarci al di là della contingenza in cui sono stati elaborati. Io, da filologo, ho vissuto un duplice sentimento (mi piace questa parola applicata al mio lavoro): di dover tenere conto di quella contingenza, e quindi di dover contestualizzare gli scritti di Sciascia, di tentare di calarmi nel clima storico e culturale in cui erano stati concepiti, di rileggerli a partire dai dattiloscritti d’autore e in qualche caso fortunato sui materiali preparatori, insomma di doverli considerare opere del loro tempo che dialogavano con le altre opere di quel periodo, oltre che con quelle del passato. Ma nello stesso tempo, ho voluto tentare di restituire il senso di viva attualità che quegli scritti emanano. Ho provato perciò a fare una filologia che non fosse solo ricostruzione di stesure e analisi di varianti, ma anche racconto della storia del testo, dall’idea iniziale alla pubblicazione, e in qualche caso al periodo successivo alla pubblicazione, nei casi in cui ci fossero state reazioni significative. Il tutto cercando di far parlare soprattutto lo stesso Sciascia, mediante gli interventi che dedicò ai suoi libri, le interviste e la corrispondenza ancora per lo più inedita. Ho ridotto al minimo essenziale i discorsi interpretativi, dando invece spazio a una sorta di autocommento dell’autore, in dialogo con i referenti nelle case editrici, l’agente letterario Erich Linder, alcuni amici letterati. Lo scopo era quello raccontare la storia dei libri e di restituire dei testi privi dei vecchi errori (particolarmente presenti nelle «Parrocchie di Regalpetra», in «Fatti diversi di storia letteraria e civile», in «A futura memoria», di cui circolavano versioni piuttosto scorrette; ma anche libri come «L’affaire Moro» o «Nero su nero» presentavano alcuni refusi non trascurabili) e sperabilmente senza errori nuovi. Ho inoltre effettuato un riesame complessivo degli aspetti linguistici della scrittura di Sciascia, perché alcuni tratti lessicali e sintattici erano stati gradualmente ‘normalizzati’, a volte involontariamente a volte per scelta, dalle case editrici che pubblicavano i suoi libri.

 

Nell’ultimo volume, alla fine dei ringraziamenti, lei scrive che è arrivato alla «conclusione di un’impresa per la quale ho conquistato gradualmente e felicemente la consapevolezza di essere adeguato». Cosa significava per lei misurarsi con Leonardo Sciascia? Come ha vissuto negli anni questo carotaggio nella sua opera?

 

Quando ho cominciato a lavorare alle «Opere», più di dieci anni fa, avevo alle spalle la lettura degli scritti di Sciascia e la stesura di alcuni studi in cui avevo cercato di applicare alla sua opera una filologia concepita più come ‘abito mentale’ che come tecnica, anche perché non avevo a disposizione i materiali d’autore su cui esercitare la tecnica filologica. Mi ero anzi fatto l’idea, sbagliata, che quel materiale non esistesse o almeno che fosse così esiguo da non consentire esercizi elaborati di filologia testuale. Quando mi è arrivata la proposta di Adelphi e ho iniziato a ragionare su come potessi realizzare il lavoro, ho percepito subito la vastità dei problemi iniziali: l’assenza di studi filologici che non fossero i miei, la carenza di informazioni sulla genesi dei testi, la lacunosità della bibliografia degli scritti, l’esiguità delle lettere pubblicate, la necessità di individuare sedi di conservazione dei materiali d’autore e di trovare il modo di acquisirli per studiarli con calma. A questa massa di problemi dovevo per di più rispondere lavorando da solo, e non in équipe come è successo in altre imprese editoriali simili, con la coscienza dell’ineludibilità di una fase di raccolta che pareva non avere mai fine, e che di fatto non è ancora terminata del tutto. Dovevo infine confrontarmi con una sistemazione precedente, quella di Claude Ambroise per Bompiani, che era stata concordata nelle sue linee essenziali con l’autore, e che aveva pienamente ottemperato al compito di rimettere in circolo libri di Sciascia ormai dimenticati e di rivitalizzare, favorendo la rilettura congiunta e progressiva di quelli più noti. In una situazione del genere, chiunque si fosse sentito sin da subito adeguato e all’altezza del compito avrebbe peccato di superbia. Per fortuna le condizioni si sono in breve rivelate favorevoli, sono apparsi studi importanti, e si è creato un clima positivo e collaborativo intorno a questa impresa che mi ha molto aiutato a superare le difficoltà iniziali. Ma è stato un percorso, durante il quale non sono mancate le difficoltà che mi hanno indotto più volte a riflettere sulla natura di quello che stavo facendo e sull’adeguatezza del mio approccio all’opera di Sciascia. Ma è stato soprattutto un viaggio entusiasmante, perché ho operato in un terreno vergine, dove c’era molto da scoprire e tante tessere da mettere insieme. Alla fine, quando mi sono visto davanti in bozze l’ultimo volume mi è venuta fuori quella frase che lei ha ricordato, che suona retorica ma è sostanzialmente vera.

 

Nel carteggio Sciascia-Consolo, Vincenzo Consolo in una breve ma incisiva parentesi rivela all’amico una sua profonda paura: “Però io ho così paura di scrivere, scrivo così poco”. Per Sciascia, invece, pare l’opposto. Nessun timore verso lo scrivere, incredibile facilità nella scrittura. Ma è davvero così? In Sciascia non esiste conflittualità tra l’uomo e la pagina?

 

In un’altra occasione Consolo disse che Sciascia al buio cercava di portare la luce, mentre lui del buio aveva paura e si disperava fino all’afasia. Sciascia non aveva paura di affrontare il nero della realtà, e lo ha dimostrato in innumerevoli occasioni, purché lo potesse fare scrivendo. Parlare gli poteva riuscire faticoso, ma con carta e penna non c’era argomento che non potesse affrontare. Dalla riscrittura dei brani del «Giorno della civetta» che ebbe l’effetto di velare le funzioni e le professioni dei personaggi influenti che ostacolano l’inchiesta del capitano Bellodi, rendendo ancor più interessante la narrazione e sfidando il lettore a un’operazione di decifrazione, al problema di dover dedicare una copia degli «Zii di Sicilia» al mafioso Genco Russo che aveva appena finito di intervistare nel 1960, proprio nel periodo in cui effettuava la riscrittura del suo primo romanzo (ne uscì benissimo con un “allo zio di Sicilia, questo libro contro gli zii”). In questo senso, non c’è alcun conflitto perché scriveva esattamente quello che pensava, a volte con interventi diretti e incisivi fino alla polemica, più spesso con la mediazione della letteratura, e quindi con quelle forme di spostamento, compromesso e sublimazione (per usare il linguaggio della psicanalisi) che caratterizzano la scrittura letteraria. La sua facilità di scrittura era il risultato di una lucidità e una coerenza, oltre che di una prodigiosa memoria, che l’hanno accompagnato lungo tutta la sua attività. Quando decideva di scrivere un libro, la struttura l’aveva già elaborata mentalmente e l’attività di scrittura a quel punto risultava fluida: la svolgeva direttamente a macchina, lentamente ma con costanza, al ritmo di quattro cartelle al giorno. Nell’esaminare i suoi dattiloscritti, non ho avuto mai l’impressione di momenti di tensione o difficoltà, se non in un paio di casi, ben spiegabili. I dattiloscritti degli interventi scritti in risposta a chi lo aveva attaccato dopo l’articolo sui ‘professionisti dell’antimafia’ mostrano tutti i segni della rabbia che dovette aver provato, pieni come sono di ripensamenti, riscritture, aggiunte a penna; il fatto stesso che non abbia pensato di ricopiare il pezzo è il segno del disagio per aver dovuto rispondere ad argomenti tanto assurdi ai suoi occhi. Un altro caso riguarda il dattiloscritto della prima parte di «Una storia semplice», il suo ultimo romanzo, in cui si scorgono i segni della fatica cui l’aveva costretto la malattia. Ma per il resto, i suoi dattiloscritti sono pressoché puliti, quasi senza cancellature o altri interventi, e danno l’impressione di essere stati scritti in una sorta di stato di grazia («Candido», il romanzo del 1977, è esemplare da questo punto di vista). C’è qualche eccezione, naturalmente: e penso alla complessa e prolungata stesura del «Contesto», un libro che se non avesse subito le pressioni esterne della casa editrice e di Linder e quelle interiori dettate dalla sua etica di scrittore che non gli consentiva di lasciare a metà un lavoro, forse avrebbe interrotto o non avrebbe pubblicato.

 

Siamo abituati a citare Sciascia per la sua lettura del fenomeno mafioso, della società e della politica italiana. Le tematiche che affronta, talvolta, prendono il sopravvento sulla sua ricerca letteraria, fino a oscurarla. Ma nel lavoro di Sciascia c’è una ricerca letteraria? È possibile dire che esiste uno “stile” sciasciano?

 

Quando si ha a che fare con un letterato del calibro di Sciascia, autore di decine di libri e di migliaia di scritti in cinquant’anni di attività, non si può pretendere di coglierne con un solo sguardo l’intera personalità, e darne una definizione sintetica. Credo sia una questione di sguardo: l’immagine che ho io di Sciascia è quella di un grande scrittore, anche e soprattutto quando affronta le tematiche importanti che lei ha menzionato. Non credo che saremmo ancora qui a parlare di Sciascia trent’anni dopo la morte, se fosse stato solo un interprete del suo tempo. È nei suoi romanzi e nelle sue inchieste intrise di narrativa che sta la cifra originale di una scrittura destinata a durare. Perciò che esista uno stile sciasciano mi pare fuor di dubbio: pensi al modo in cui si svolgono i dialoghi nei suoi racconti, all’equilibrio con cui fa emergere gli elementi saggistici nella narrazione e le numerose citazioni ricavate dalle opere di altri scrittori, all’ironia che attraversa tutta la sua opera. Non credo però che per Sciascia si possa parlare di ‘ricerca’ letteraria, perché nella sua scrittura non fa trasparire quegli elementi di costruzione graduale e rielaborativa della pagina, né li ho rintracciati nell’indagine sui dattiloscritti e i materiali preparatori. Però attenzione: la facilità di scrittura che ho evocato prima non è segno di semplicità. I suoi libri, anche quando appaiono scorrevoli e lineari, consentono sempre diversi livelli di lettura, hanno la complessità tipica dei classici del modernismo novecentesco, con in qualche caso (penso a «Il cavaliere e la morte») possibili sconfinamenti nel postmoderno.

 

Una curiosità da lettore: cos’è rimasto fuori dai volumi adelphiani? Possiamo augurarci di leggere negli anni a venire altri, nuovi, inediti libri di Leonardo Sciascia?

 

Fuori sono rimasti molti e interessanti interventi di tipo saggistico, gli articoli apparsi sui giornali, le prefazioni e le note editoriali, gli interventi sull’arte, insomma tutti quegli scritti di storia letteraria e civile che Sciascia non raccolse nei libri che licenziò in vita. Troppi e troppo interessanti per operare una scelta che fosse nello stesso tempo rappresentativa e gestibile all’interno dell’ultimo volume delle «Opere», già molto ampio. Per i testi letterari dispersi raccolti nel primo volume delle «Opere» (i racconti e le prose d’arte, le interviste impossibili e i dialoghi, le poesie e le traduzioni poetiche) era stato possibile fare una scelta diversa, e di fatto si è arrivati all’esaustività. Ma il lavoro di recupero dei saggi dispersi è a mio avviso ineludibile, e spero ci possano essere altri libri come «Fine del carabiniere a cavallo» e «Il metodo di Maigret», che in questi anni ho curato per Adelphi accanto alle «Opere», entrambi costruiti intorno a temi specifici. Per andare oltre su questa strada era prima necessario sistemare dal punto di vista filologico i libri licenziati da Sciascia, così da avere dei punti di riferimento sicuri e ordinati. Ma si tratta di una scelta che spetta agli eredi dello scrittore e alla casa editrice che detiene i diritti: per parte mia posso solo dare la mia disponibilità a continuare l’attività, senza più le incertezze e i timori dell’inizio, e un po’ di esperienza in più.