Via d'Amelio, i giudici: "Non solo Cosa nostra dietro la strage"
"C'è la concreta partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D'Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere esterni interessati all'eliminazione di Paolo Borsellino". Lo scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio.
Nelle 1.500 pagine i giudici Scrivono chiaramente che nell’eliminazione di Borsellino hanno avuto un ruolo chiave anche altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione del magistrato, sia nell’ideazione che nella preparazione ed esecuzione della strage di via D’Amelio. Il processo si è concluso con la prescrizione del reato di calunnia aggravato contestato ai poliziotti Bo e Mattei e l'assoluzione del terzo poliziotto imputato, Ribaudo.
I giudici puntano all'anomala tempistica della strage - A dimostrare l'ingerenza di terzi soggetti sarebbero "l'anomala tempistica della strage di Via D'Amelio (avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell'agenda rossa di Paolo Borsellino". "Non è aleatorio sostenere - si legge - che la tempistica della strage di Via D'Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le sue azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali (soprattutto nel caso di magistrati) e ciò nella logica di frenare l'attività di reazione delle istituzioni". "La presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa nostra - concludono - si spiega solo alla luce dell'appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell'autobomba destinata all'uccisione di Paolo Borsellino".
"La sparizione dell'agenda rossa di Borsellino non è opera di Cosa nostra" - A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell'ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell'agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra". E' uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio dedicato alla sparizione dell'agenda rossa del giudice Paolo Borsellino. "Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze. In primo luogo, l'appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l'agenda.- scrive il tribunale - Gli elementi in campo non consentono l'esatta individuazione della persona fisica che procedette all'asportazione dell'agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre". "In secondo luogo,- concludono- un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell'eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire - non oggi, ma già 1992 - il movente dell'eccidio di Via D'Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D'Amelio".
Le "amnesie" dei testimoni - I giudici del tribunale di Caltanissetta, che hanno depositato le motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio, hanno sottolineato "l'obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi - non solo spettatori degli avvenimenti dell'epoca, ma anche attori, più o meno centrali, delle vicende oggetto di esame - a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti". "Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone- Borsellino della Polizia di Stato), - spiegano - e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l'accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato".
Le false testimonianze - "Senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, della falsità della collaborazione di Vincenzo Scarantino (e della falsa ricostruzione della strage di Via D'Amelio che ne è derivata) non si sarebbe acquisita certezza. Tale circostanza deve fare riflettere sulle possibili disfunzioni, sotto il profilo dell'accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia. In altri termini, si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova al punto da determinare che, in ben due processi, sviluppatisi entrambi in tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà" scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta che hanno depositato le motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio.
Il ruolo dei servizi segreti - I giudici di Caltanissetta chiariscono che i servizi segreti non avrebbero potuto partecipare alle indagini sulla strage. Ma una partecipazione del Sisde c’è stata e non ne era al corrente solo il procuratore Tinebra (che la sollecitò), ma anche il vertice dei servizi di sicurezza. «È legittimo ritenere che il capo della Polizia di Stato e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere un’iniziativa senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca, cioè l’allora ministro dell’Interno Mancino», si legge nelle carte dei giudici. Ma nessuno dei magistrati d’ufficio si oppose. Probabilmente perché si trattava di un’iniziativa promossa dal capo d’ufficio. Infine, come è già noto, anche i giudici mettono nero su bianco che Paolo Borsellino «si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale».
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