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22/07/2023 06:00:00

50 mila euro per quei file “rubati” su Messina Denaro, ma lo scoop non c’era. Ecco perché

 Pensavano di fare 50 mila euro, vendendo a Fabrizio Corona dei file sulle indagini della cattura di Matteo Messina Denaro e della rete dei suoi fiancheggiatori. 768 file top secret divisi in 14 cartelle, che Luigi Pirollo, carabiniere della Compagnia di Mazara del Vallo avrebbe rubato dal server dell’Arma, condividendo il progetto con il consigliere comunale  Giorgio Randazzo (che a Mazara si era pure candidato a sindaco). Come abbiamo già raccontato, i due però sono finiti agli arresti domiciliari: Pirollo per accesso abusivo al sistema informatico e violazione del segreto d’ufficio, Randazzo per ricettazione. Mentre il noto fotografo risulta soltanto indagato per tentata ricettazione.

 

Il pezzo forte della “merce” sarebbe stato uno scoop. “Uno scoop pazzesco”, lo aveva definito lo stesso Corona, intercettato al telefono lo scorso 2 maggio. Si, perché il consigliere Randazzo gli aveva parlato di un elenco di case da perquisire dove mancava proprio quella di vicolo San Vito, il covo dove il boss ha trascorso l’ultima parte della sua latitanza. Da qui l’idea di trame oscure su quel mancato inserimento (in realtà la perquisizione è stata ritardata soltanto di qualche ora) che avrebbe potuto permettere a qualcuno di portar via dalla casa di Messina Denaro le cose più compromettenti.

Ma l’immobile, così come chiarito dai carabinieri alla Procura che ha ritenuto convincenti le spiegazioni, non era presente nell’elenco soltanto per una “mera svista”. Insomma, le perquisizioni sarebbero state effettuate una dopo l’altra in tutti i luoghi riferibili al prestanome Andrea Bonafede e in sua presenza, nello stesso giorno. Fin quando si è arrivati anche lì, in vicolo San Vito, dove sono stati trovati tantissimi documenti, tra i quali anche  quelli (certamente compromettenti) che hanno permesso di arrestare la sorella del capomafia, Rosalia. Perché l’ipotetico “ripulitore” li avrebbe lasciati?

 

Una brutta storia, di cui gli inquirenti si sono accorti perché da un po’ intercettavano l’utenza di Corona. E l’intercettavano perché era emerso che era stato proprio il noto fotografo a vendere quei messaggi audio del boss con alcune pazienti della Maddalena conosciute durante le sedute di chemioterapia. Messaggi che erano poi stati diffusi  negli approfondimenti di Giletti, su La7.

Corona, in questo caso, consiglia al Randazzo di rivolgersi all’amico giornalista Moreno Pisto, direttore del sito Mow, che si fa installare sul computer un programma che copia in modo automatico e senza particolari evidenze, il contenuto di qualsiasi pen drive in ingresso.

I tre (Pisto, Corona e Randazzo) si incontrano a Milano. E con la scusa di vedere di cosa si trattasse, tutti i file (o quasi) vanno a finire nella memoria fissa del pc di Pisto senza che il politico si accorge di niente. Poi però Pisto, essendosi reso conto (è quello che affermerà dopo), che in realtà non c’era materiale per uno vero scoop, chiede consiglio ad un collega sul da farsi e alla fine racconta tutto alla Squadra mobile. Il risultato è l’inchiesta della Dda e gli arresti. C’è voluto poco infatti a scoprire che quei documenti provenissero dagli archivi della stazione dei carabinieri di Campobello di Mazara. Le verifiche tecniche, attraverso un codice identificativo di accesso che rimane in memoria, hanno permesso di risalire al carabiniere Luigi Pirollo.

 

Secondo il procuratore aggiunto Paolo Guido e il sostituto Pierangelo Padova, lo scopo della divulgazione di quei file sarebbe stato quello di alimentare le teorie complottistiche sulla cattura di Messina Denaro. E il giudice non ha escluso che potrebbero esserci altri documenti coperti dal segreto istruttorio trafugati da Pirollo ma non mostrati a Pisto. Magari altri pen drive da usare in successive occasioni per ulteriori “affari”.

E mentre il giudice, nell’ordinanza di custodia cautelare si sofferma sulla “spregiudicatezza” di Pirollo e Randazzo, Fabrizio Corona, indagato perché è a lui che sarebbero stati proposti i file top secret, si difende su Instagram, respingendo le accuse anche attraverso il suo avvocato Ivano Chiesa. Il fotografo sottolinea di aver deciso insieme a Pisto di denunciare tutto alla Mobile. Ma in realtà non sarebbe andato fisicamente con lui, né avrebbe sottoscritto la denuncia.

 

Come è stata possibile una vicenda di questo genere? Solo interesse economico? O a muovere le cose ci si è messa quella tendenza al complottismo che si era registrata subito dopo l’arresto del boss (si è fatto prendere, si è messo d’accordo con i carabinieri, è un’altra trattativa…)?

C’entra qualcosa la narrazione tipicamente Italiana, cadenzata dalla ricerca morbosa del particolare piccante, del gossip?

Sarà anche un effetto collaterale di questo necessario procedimento all’inverso, della serie prima catturiamo il latitante e dopo risaliamo alla rete di protezione che, evidentemente, richiede tempo per le indagini. E se per mesi non si hanno nuove notizie, il vuoto finisce per essere riempito dalle amanti, il Viagra, i contraccettivi, gli occhiali…

Poi, nel caso queste cose non dovessero bastare, c’è sempre la vecchia idea del covo non perquisito. In questo caso, perquisito in ritardo.

 

Egidio Morici