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27/07/2023 06:00:00

Nella Sicilia che brucia, senza via di fuga 

 Dunque, dove eravamo rimasti? Ah, si. I primi focolai di inizio luglio. Le riunioni, i tavoli tecnici in Protezione Civile e nelle Prefetture, il governatore Renato Schifani che dice che andrà tutto bene, e l’assessora con delega al Territorio e Ambiente, Elena Pagana, che sottolinea come siamo pronti, qui in Sicilia, e che il nuovo sistema operativo funzionerà a meraviglia, contro piccoli e grandi incendi.


Morale: 25 luglio 2023, quarantuno gradi di media, vento di scirocco. Eravamo dentro una scatola di fiammiferi pronta per essere accesa. E non lo sapevamo. La Sicilia brucia. Tutta. Alle 14 la Protezione Civile segnala novanta incendi in contemporanea, senza contare i piccoli roghi, quelli non fanno più notizia.


Brucia Catania, senza corrente elettrica né acqua. Brucia Palermo, circondata dal fuoco, le fiamme aggrediscono l’aeroporto, viene chiusa l’autostrada. Brucia la Riserva dello Zingaro e i cittadini lanciano un appello: «Aiutateci, mandate i Canadair». Ma i Canadair non ci sono, ce n’è uno, anzi, sulle Madonie, poi un altro a Pantelleria, ci sono incendi pure lì. Brucia il parco archeologico di Segesta. Il tempio millenario che fino a qualche sera fa era protagonista del K Festival assiste impotente all’avanzare del fronte di fuoco.

Ottanta turisti a San Vito Lo Capo sono stati evacuati via mare. Per altri, nella notte, è scattato il piano di fuga, da hotel e B&B. Vengono evacuati gli ospedali, a Palermo l’autorità sanitaria dirama l’appello che va bene per tutto, per il caldo come per il Covid: «Restate a casa». Se a casa vostra la corrente elettrica c’è, verrebbe da aggiungere, e un minimo di condizionatore. Se no è roba da stare male. Ma anche stare male, non conviene. Anche perché negli ospedali manca l’aria condizionata, come a Marsala, ad esempio, e per evitare l’ammutinamento dei pazienti, che hanno minacciato di chiamare i Carabinieri, l’Azienda ospedaliera ha comprato dei condizionatori portatili.


I sindaci sono in prima linea, soli e traditi, a coordinare i volontari e a chiedere aiuto e ancora aiuto. Il sindaco di Calatafimi Segesta, Francesco Grupposo, racconta: «Già ieri abbiamo chiesto i mezzi antincendio, sono arrivati un elicottero e un canadair con schiuma estinguente. Il fuoco alle 19 era domato, ma mezz’ora dopo hanno dato fuoco in una zona ancora più impervia, all’interno del parco archeologico». Nessuno la notte ha chiuso occhio: «È andato distrutto il patrimonio archeologico, pure i bagni, il punto di ristoro, per mano di vigliacchi criminali».

Perché è umana la causa di tutto, è dell’uomo la mano che accende la fiamma che cresce e divora. Criminali, nemici invisibili, che agiscono per i motivi più diversi, dal controllo del territorio, ad una vendetta per un pascolo conteso, dalla necessità di un disboscamento veloce e letale per ragioni di speculazione edilizia, fino al piacere della fiamma, ma questi ultimi sono pochi. E continuare a chiamare “piromani” i criminali che appiccano il fuoco, come se fossero dei matti da Tso, è un errore. Siamo di fronte a qualcosa di diverso, alla criminalità che trova il suo primo alleato in un territorio fragile e abbandonato, e in una politica incapace.

La Sicilia è in tilt. E non comincia tutto dagli incendi delle ultime ore, quella è l’ultima goccia, pardon, l’ultima fiamma, in un clima reso incandescente e surreale già di suo da … un condizionatore. Un condizionatore che va a fuoco, per l’ironia della sorte che hanno le cose di Sicilia, e che devasta l’aeroporto di Catania, il primo per di numero di passeggeri in Italia. L’incendio mette ko l’aeroporto e tutto il traffico aereo va in tilt. Voli spostati a Palermo e Trapani, migliaia di persone a terra, la guerra degli stracci tra i partiti del centrodestra al grido di «era meglio se ci mettevano i nostri». Quarantamila passeggeri al giorno da sistemare, una carta matta che ha messo a nudo la fragilità dei trasporti dell’Isola: «Dovevo atterrare a Catania, mi hanno spostato a Trapani. Ho l’albergo a Scicli. Come ci arrivo? Con il treno mi indicano 20 ore», è uno dei tanti commenti che si leggono in questi giorni sui social.

Ed era prevedibile, per chi è esperto di cose di Sicilia, che alla clamorosa chiusura dell’aeroporto di Catania avrebbe fatto seguito, a ruota, quella di Palermo. È accaduto il 25 luglio, per mezza giornata, e sembrava un punto di non ritorno, il sogno che si realizza di generazioni di autonomisti: volevate l’indipendenza? Eccola. Ci volevano le fiamme, altro che il Covid, per separare la Sicilia dal resto d’Italia.

Poi l’emergenza all’aeroporto di Palermo è rientrata, e Schifani promette che la settimana prossima rientrerà anche quella di Catania, ma nel frattempo, adesso, l’emergenza sono le autostrade tagliate dalle fiamme, e Palermo assediata, e Catania che fa da sé notizia davanti al mondo intero, in una città dove il centrodestra governa tutto, pure i condomini, ma non riesce a garantire condizioni minime di civiltà di fronte agli eventi di questi giorni, lasciando senza luce e senz’acqua imprese e negozi che già si preparano alla conta dei danni.

Il presidente Schifani si informa, chiama, gira, partecipa a riunioni, la mattina tranquillizza: «Il coordinamento degli interventi funziona», dice. Nel pomeriggio però preannuncia la richiesta dello stato di emergenza. Ha il tempo per un messaggio particolare: «Ringrazio il ministro Matteo Salvini, che segue personalmente l’evolversi della situazione», perché è nelle crisi che si suggellano le alleanze, e ormai Schifani e Salvini sono una cosa sola. E bisogna ricordarlo, anche mentre tutto brucia.

Ma perché poi questo ringraziamento, così, d’emblée, a Matteo Salvini? Perché anche lui non si è tirato indietro di fronte alla specialità della casa: il tavolo tecnico. Ne ha convocato uno per l’emergenza Sicilia al ministero dei Trasporti. E mentre tutto brucia, il ministro Salvini forse per tranquillizzare tutto, sfodera la sua bandiera: il Ponte sullo Stretto. «Il bando sarà pronto tra un mese – dice – costerà meno di tredici miliardi di euro, si ripaga in due anni». Le fiamme, si sa, hanno paura del mare. E magari il Ponte è una via di fuga dalla Sicilia che brucia.