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31/10/2023 06:00:00

L'olio extra vergine è davvero l'oro verde di Sicilia?

 L’olio extravergine siciliano riscuote sempre più successo nei mercati internazionali, a tal punto che in molti lo definiscono l’oro verde di Sicilia: lo scorso maggio l’olio della rinomata azienda siciliana Barbera veniva premiato come il più buono del mondo al contest del Sofy Award. Per la Guida Oli d’Italia del Gambero Rosso, la Sicilia si posiziona nel 2023, dopo Toscana e Puglia, come la regione con più oli premiati in Italia. Leggendo i giornali, insomma, sembra proprio che l’olio siciliano stia vivendo l’inizio di una stagione d’oro. 

Eppure se si prova a dare un’occhiata più attenta al settore olivicolo locale, la situazione non appare così rosea.

Nonostante la Sicilia sia la terza regione in Italia per produzione di olio extravergine, questo prodotto sconta innanzitutto il peccato di essere considerato il “fratello minore” del vino. Quello dell’olio nella nostra regione è infatti un settore tradizionalmente legato a quello enologico e a cui spesso si applicano -erroneamente- le stesse logiche, proprio come conseguenza del fatto che sono tante le aziende vitivinicole della regione che affiancano alla loro selezione di vini anche un’offerta di olio evo, più per convenienza commerciale che per valorizzazione del prodotto. Eppure vino e olio sono prodotti diversi sotto moltissimi aspetti: tipo di coltura, modalità di vendita, occasione di consumo. Continuando a considerare l’uno la costola dell’altro, si rischia di non sganciare mai l’olio dal vino, impedendogli di costruirsi una sua identità ben definita, legata alla valorizzazione del territorio e delle cultivar autoctone.

Abbiamo dovuto attendere il 2011 per far sì che ci fosse un ente regionale dedicato alla tutela e alla promozione di questo prodotto: l’IRVO, l’Istituto Regionale del Vino e dell’Olio. Peraltro, la decisione di inserire l’olio tra le competenze di un istituto che si occupa di vino dal 1950 non è un caso, ma sembra piuttosto figlia di questa cultura diffusa che considera l’olio evo come “un vino che non ce l’ha ancora fatta”. 

Si tratta di un peccato originale che spiega molte delle anomalie del settore.

Ad esempio, mentre per il vino sono a poco a poco sorte scuole, università, associazioni e festival dedicati che hanno favorito la diffusione di una certa cultura enologica sul territorio, nel caso dell’olivicoltura, ovvero la seconda coltura più importante per la nostra regione, le cose vanno a rilento. Se oggi, un giovane o una giovane del trapanese intende investire in produzione e commercializzazione di olio extravergine di qualità, quello che trova davanti a sé è un percorso in salita. 

In Sicilia i corsi di assaggiatore di olio, ovvero quelli autorizzati a rilasciare l’attestato di idoneità fisiologica all’assaggio, scarseggiano. A differenza di ciò che avviene nel caso del vino, in cui le scuole di formazione di ONAV o AIS hanno delegazioni e sezioni in praticamente tutte le province siciliane, quelle dedicate all’olio extravergine non hanno la stessa capillarità. Le principali associazioni di olio extravergine italiane sono localizzate in Toscana, Puglia, Liguria e Lazio ed è in quelle regioni o nella più cosmopolita Milano che si tengono i frequenti corsi di formazione.

Per fortuna, tra corsi online e occasionali corsi di assaggio tenuti tra Palermo e Catania, ottenere l’idoneità non è impossibile, ma non basta. Se si decide di proseguire sulla strada della formazione il percorso è lungo e, se si risiede nella provincia di Trapani, ancora più complicato. Infatti, una volta ottenuta l’idoneità fisiologica, chiunque voglia diventare assaggiatore professionale, è obbligato a partecipare ad almeno 20 sessioni di assaggio presso dei comitati, i cosiddetti “panel”. Il problema è che nell’intera provincia di Trapani non esistono panel professionali e in tutta la Sicilia se ne contano appena quattro: uno a Palermo, due a Catania e uno a Ragusa. Un numero impietoso se si considera che in Puglia sono 11 e in Toscana 19 (Mipaaf 2023).

L’assenza di panel d’assaggio non è solo un problema per chi vuole intraprendere un percorso professionale, ma per tutte le aziende olivicole che operano nel territorio, in quanto è il segnale che manca una rete consolidata di professionisti a supporto di un’offerta di qualità. Questa mancanza si riflette di conseguenza nella capacità di certificare i nostri oli come IGP o DOP. Basti pensare che solo il 19% degli oli evo con certificazione di qualità proviene dalla Sicilia, mentre il 30% è di origine toscana, nonostante la nostra regione produca il doppio della quantità di olio (ISMEA, 2023). È per questo motivo che l’IRVO ha indetto nel 2022, per la prima volta in 20 anni, un corso per capo panel, con l’obiettivo di rafforzare la presenza di professionisti dell’olio sul territorio regionale.

Inoltre, la carenza nel trapanese -zona vocata all’olivicoltura- di manifestazioni di rilievo come fiere, giornate di degustazione o eventi dedicati alla valorizzazione di questo prodotto, favorisce il mantenimento di una scarsa cultura olivicola di qualità nel nostro territorio. Esperienze come quelle dei Frantoi Aperti in Umbria, un’iniziativa regionale che attrae un turismo dedicato all’olio di qualità, dovrebbero aiutarci a capire quale potrebbe essere la direzione da intraprendere.

Infine, come denuncia ISMEA nel suo rapporto sullo stato di questo settore, in Italia manca un’olivicoltura di stampo imprenditoriale e gli oliveti sono condotti spesso in maniera non professionale: mancano sia investimenti in impianti di irrigazione che opportune nozioni di potatura, che aiuterebbero a migliorare la qualità del prodotto, a partire dal campo.

Tutto ciò non ha solo a che fare con una dimensione culturale, ma meno formazione e meno qualità si traducono di fatto in minori guadagni. Un territorio che non riesce a valorizzare il proprio prodotto finisce per cederlo ad altri che, imbottigliando e investendo sul marchio, lo venderanno in altri mercati a prezzi più elevati. La Toscana, pur producendo il 5% dell’olio nazionale, ne imbottiglia il 36% e persino la Lombardia, che non risulta tra le regioni produttrici, ne imbottiglia il 10%.

La sensazione dunque è che, fatte le dovute eccezioni, il nostro territorio non stia sfruttando al massimo tutte le potenzialità che un prodotto come l’olio potrebbe rappresentare, in termini di ricchezza economica e culturale. 

Basterebbe cominciare a considerare l’olio come un prodotto con una sua identità ben definita e far sì che possa esprimere tutto il suo potenziale, smettendo così di vivere all’ombra del vino. È necessario che le aziende agricole olivicole si avvalgano di figure professionali in grado di guidarle in un percorso di ricerca della qualità e che facciano rete, investendo in formazione, oleoturismo e creando una cultura territoriale dell’olio evo che coinvolga anche il mondo della ristorazione locale. Tutto questo per far sì che l’olio si trasformi per davvero in oro, e non solo per poche e illuminate eccezioni imprenditoriali, ma per tutto il nostro territorio.

Mariangela Figlia