Melchiorre Tedeschi. Era questo il capomafia di Castelvetrano negli anni ’30 e ’40 dell’Ottocento a Castelvetrano. Una sorta di Matteo Messina Denaro ante litteram, quando ancora non esisteva ancora il termine mafia e i mafiosi erano chiamati facinorosi, intraprendenti, scorridori di campagne, malandrini.
Se ne parla in Nascita della mafia, l’ultimo libro di Salvatore Mugno, pubblicato da Navarra Editore. Giornalista e scrittore trapanese, per la stesura di questo documentatissimo libro, Mugno ha condotto sette anni di indagini e ricerche tra gli archivi di Stato di Napoli, Palermo, Messina e Trapani.
Il libro, edito da Navarra, è stato presentato a Castelvetrano qualche giorno fa, alla presenza dell’autore e con la partecipazione del procuratore del Tribunale di Marsala, Fernando Asaro e dello storico di Castelvetrano Francesco Saverio Calcara.
È centrato nel periodo che va dal 1838 al 1846, quando l’allora procuratore generale del re, il napoletano Pietrò Calà Ulloa, si era accorto di tante cose che non andavano proprio operando in provincia di Trapani: “Non vi è un impiegato in Sicilia che non si sia prostrato al cenno di un prepotente o che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio – scriveva Ulloa al ministro della Giustizia Parisio - Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi”.
L’accento sulla figura di Melchiorre Tedeschi e della sua banda, ha rivelato poi come di fatto la cultura mafiosa abbia permeato il territorio siciliano da molto più tempo di quanto si creda e come la violenza e l’intimidazione siano stati da sempre l’ossatura della mafia.
Illuminante un episodio letto in sala da Sonia Giambalvo in cui Tedeschi e i suoi “uomini”, la notte del 10 marzo 1835, a Castelvetrano, fecero irruzione nella casa di Gaetana Como, una signora di settantatré anni, picchiata a morte per farsi rivelare dove tenesse i soldi, e poi scapparono dalla casa col bottino, coperti di sangue.
Il procuratore Asaro, nel ribadire come in realtà non ci sia mai stata una mafia buona, ha fatto un parallelismo tra la violenza di Melchiorre Tedeschi nei confronti dell’anziana donna e la totale insensibilità di Matteo Messina Denaro, responsabile del rapimento del piccolo Giuseppe di Matteo, condannato anche per le stragi del 92 e 93.
Certo, per sembrare buona, la mafia ricorreva a degli espedienti. E a questo proposito si è rivelato molto interessante un aneddoto raccontato dal professore Francesco Saverio Calcara, vissuto in prima persona diversi decenni fa e che riportiamo di seguito:
“Una sera, insieme a degli amici dovevamo andare a Palermo. Eravamo tutti universitari con poche risorse e quindi stavamo facendo una colletta per mettere benzina: chi metteva 500 lire, chi mille… Ad un certo punto arriva questo macchinone, adesso non ricordo che macchinone fosse, e scende Matteo Messina Denaro. Ovviamente erano gli anni precedenti alla latitanza, anche se era conosciuto come il figlio dello zu Ciccio. Una volta sceso dal macchinone, ci chiede che cosa stessimo facendo. Noi gli diciamo della colletta per la benzina e allora lui tira fuori una banconota da 50 mila lire, che per l’epoca era una fortuna, e ci dice: “Itivi a divertiri” (andate a divertirvi).
Ecco, questo la dice lunga su come si costruisce il mito del mafioso buono”.
“Leggendo questo libro non posso negare di essere stato presto dallo sconforto – ha affermato il procuratore - Soprattutto per come determinate dinamiche, anche di carattere sociale, siano presenti ancora oggi. Ecco quello che scrive Ulloa del Popolo Siciliano in un rapporto inviato al ministro Parisio: ‘Poltrisce nell’ignoranza, sdegnerebbe di apprendere nuovi ritrovati dell’Agronomia, e mentre perisce talvolta di fame è quasi dappertutto negletta la piantagione delle patate. Contenta la plebe a marcir nell’ozio, lascia il suolo coperto di soli fichi d’India, perché non dimandano né fatica né coltura! A tutto ciò aggiunga, Signore Eccellentissimo, lo stato delle leggi per lungo tempo barbare ed incomposte. Donde la demoralizzazione del popolo, persuaso che tutto sia lecito ad eluderle; quindi la trista opinione di dover salvare un incolpato dal rigor della giustizia; quindi un numero strabocchevole di falsi testimoni; quindi la facilezza incredibile ad occultar reati’”.
Ulloa - ha continuato il dottor Asaro – scrive anche degli avvocati e li descrive come ‘avidi, ignoranti, baldanzosi, immoralissimi. Vuolsi sapere che qui ogni causa ha un’orda di avvocati. Vi è l’avvocato consulente, vi è l’avvocato scribente, vi è il parlante, vi è l’informante, vi è l’auricolare (che col solo nome annunzia l’infamia dei Magistrati) e quindi il patrocinatore. Essi sono pagati a terze anticipate, e perciò venuto un litigio nelle loro mani il perpetuano per ciò solo che aspettandosi poco compenso finale, le terze sole costituiscono le rendite di più anni. Gli atti sono prolissi, infiniti, perché non soggetti al registro ed al bollo’”.
Insomma, Ulloa aveva capito tutto, descrivendo “unioni o fratellanze, specie di sette che diconsi partiti”. Associazioni legate da un capo (spesso un possidente o un arciprete), con l’uso di una “cassa comune” per influenzare funzionari o incolpare innocenti. Senza contare la “tacita convenzione coi rei” del popolo e la diffusa corruzione di “alti magistrati” e funzionari che coprivano queste fratellanze.
Come far fronte al pessimismo e cambiare le cose, nonostante il forte radicamento della mafia negli anni? Il procuratore Asaro non ha dubbi: “Veniteci a trovare in procura, denunciate”.
Egidio Morici