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21/05/2025 09:54:00

Reddito di cittadinanza, assolto in appello un giovane del Gambia: “Non era reato”

È una sentenza destinata a fare giurisprudenza quella emessa dalla Corte d’Appello di Palermo il 19 maggio 2025, che ha assolto un giovane del Gambia ccusato di aver falsamente dichiarato la propria residenza per ottenere il reddito di cittadinanza.

Il caso risale al 2020, quando il ragazzo aveva presentato domanda per il sussidio tramite un CAF di Mazara del Vallo, dichiarando – come allora richiesto – di risiedere in Italia da almeno dieci anni. Ma secondo le verifiche, il giovane risultava residente nel territorio nazionale “solo” dal 2015. La Procura di Marsala lo aveva quindi rinviato a giudizio per indebita percezione del beneficio, con l’accusa di aver falsamente attestato il requisito dei dieci anni di residenza. Nel gennaio 2024 era arrivata la condanna in primo grado: un anno di reclusione, pena sospesa.

Ma il suo difensore, l’avvocato Antonino Giustiniano del Foro di Marsala, ha fatto leva in appello sulla storica sentenza della Corte Costituzionale n. 31 del marzo 2025, che ha dichiarato incostituzionale il requisito della residenza decennale, riconoscendone invece la legittimità per i soli cinque anni.

Un passaggio fondamentale: secondo la Consulta, quel requisito discriminava i cittadini stranieri, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione. E così, applicando questo principio al caso del giovane, la Corte di Appello – presieduta da Gabriella Di Marco – ha deciso l’assoluzione piena: «Il fatto non è previsto dalla legge come reato».

Al momento della domanda per il reddito, infatti, il giovane risiedeva in Italia da più di cinque anni: dunque, anche se aveva indicato dieci anni come previsto dalla norma allora in vigore, quella norma oggi non è più applicabile perché dichiarata incostituzionale.

Una decisione che potrebbe aprire la strada a numerosi altri casi simili. Lo sottolinea anche l’avv. Giustiniano: “Per quanto mi risulti, è il primo pronunciamento penale che applica questa lettura della Consulta. Spero che venga seguito anche da altre Corti: è il momento di superare una disparità di trattamento ingiusta”.

Il giovane, che aveva percepito poco meno di 7.000 euro in totale, era stato accusato anche di dover restituire l’intero importo all’INPS, e la condanna prevedeva che l’esecuzione della pena fosse subordinata a questa restituzione. Ora, con la sentenza di appello, la sua posizione è stata totalmente chiarita: nessun reato, nessuna condanna.

Una vicenda che mostra quanto il diritto – anche nel campo dei sussidi sociali – si debba continuamente confrontare con i principi costituzionali, e come una norma ritenuta discriminatoria possa trasformare radicalmente l’esito di un processo.