Domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025 gli italiani saranno chiamati a esprimersi su cinque referendum abrogativi: quattro riguardano il lavoro e uno la cittadinanza.
Saranno validi solo se si raggiungerà il quorum, cioè se andrà a votare la maggioranza degli aventi diritto al voto. Voto anche per i fuori sede, che potranno votare senza dover tornare nella città di residenza. I seggi saranno aperti dalle 7 alle 23 di domenica 8 giugno e dalle 7 alle 15 di lunedì 9 giugno.
Trattandosi di referendum abrogativi, che vanno a eliminare una norma già esistente, per votare a favore della proposta, bisognerà tracciare un segno sul Sì, qualora si volessero mantenere le leggi attuali sarà necessario votare No.
Per votare è necessario presentarsi con un documento di riconoscimento in corso di validità e con tessera elettorale. Ogni elettore può decidere di ritirare solo alcune delle cinque schede e rifiutare le altre al momento della consegna, dichiarandolo al presidente di seggio. Le schede non ritirate non saranno conteggiate ai fini del quorum. Le schede lasciate bianche o annullate, al contrario, anche se prive di un voto valido concorrono comunque al raggiungimento del quorum. La scelta tra le due alternative può quindi avere un impatto sull’esito finale, nel caso la partecipazione sia bassa.
Negli ultimi trent’anni il quorum ai referendum abrogativi è stato raggiunto solo una volta, era il 2011 e la materia era “acqua pubblica e nucleare”.
I quesiti
-Il primo quesito, scheda verde
Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?". E’ il primo dei quattro referendum sul lavoro, promossi dalla Cgil, con cui si chiede la cancellazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti introdotto nel 2015 con il Jobs act del governo Renzi, applicata a chi è stato assunto dal 7 marzo 2015 in poi. Nelle imprese con più di 15 dipendenti, in diversi casi di licenziamento illegittimo non c’è il reintegro nel posto di lavoro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 ma un indennizzo economico che può arrivare fino ad un massimo di 36 mesi.
Il Jobs act ha previsto, in caso di licenziamento, il superamento del reintegro nel posto di lavoro sostituito da un indennizzo economico “certo e crescente” commisurato all’anzianità di servizio. Si va da un minimo di 6 mensilità ad un massimo di 36. Attualmente non c’è il reintegro ma l’indennizzo in questi casi: per caso di licenziamento individuale per motivi economico/organizzativi (i cosiddetti licenziamenti per giustificato motivo oggettivo); per licenziamento disciplinare; nei licenziamenti collettivi se vengono violati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; se il licenziamento viene fatto in caso di malattia prima della scadenza del cosiddetto ’periodo di comporto’. Resta il reintegro nel posto di lavoro nei casi di licenziamento discriminatorio (ad esempio per ragioni legate a opinioni politiche, religiose, fatto durante la maternità o intimato in forma orale) e in specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
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-Secondo quesito, scheda arancione
Riguarda «Piccole imprese - Licenziamenti e relativa indennità: Abrogazione parziale», si propone di abrogare l’attuale disciplina che impone un limite all’indennità per i lavoratori e le lavoratrici licenziati in modo illegittimo nelle piccole imprese (con meno di 15 dipendenti), nel caso in cui si può ricevere un risarcimento massimo pari a sei mesi di stipendio, anche se il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto di lavoro. Le norme sono state introdotte dalla riforma Jobs Act, attuata dal governo Renzi nel 2014. La responsabilità di stabilire l’indennizzo verrebbe ceduta al giudice che stabilirebbe l’ammontare del risarcimento senza limiti economici, ma sulla base di criteri come l’età, i carichi di famiglia e la capacità economica dell’azienda.
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-Terzo quesito, scheda grigia
Il terzo quesito riguarda ancora il Jobs act, ma anche l'ultimo intervento del governo Meloni, puntando all'eliminazione di alcune norme sull'utilizzo dei contratti a termine per ridurre il precariato. La Cgil calcola che in Italia ci sono oltre 2 milioni e 300 mila persone che hanno contratti di lavoro a tempo determinato, che possono essere instaurati fino a 12 mesi senza causali, ovvero senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. L'obbligo di causali per i contratti a termine fino a 12 mesi era stato eliminato nel 2015 con il Jobs act del governo Renzi e poi reintrodotto nel 2018 con il decreto Dignità del governo Conte. L'ultima modifica è arrivata nel 2023 con il decreto Lavoro del governo Meloni, che ha escluso per i rinnovi e per le proroghe l'esigenza delle causali per i contratti fino a 12 mesi e introdotto nuove causali per i contratti con durata compresa tra i 12 e i 24 mesi (tra cui quella per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti in assenza della previsione contrattuale, che è possibile stipulare fino a fine anno).
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-Quarto quesito, scheda rosso rubino
La materia sulla quale si interviene è quella della salute e sicurezza sul lavoro e riguarda il Testo unico del 2008. La Cgil ricorda che sono circa 500mila le denunce di infortunio sul lavoro in un anno e mille i morti, cioè in Italia ogni giorno tre lavoratrici o lavoratori muoiono sul lavoro. Nel mirino ci sono gli appalti e i subappalti. Si chiede di modificare le norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all'impresa appaltante: "Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell'imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro”.
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-Quinto quesito, scheda gialla
Si voterà anche la legge del 1992 che regola la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri. I cittadini riceveranno una scheda gialla per esprimere il loro parere. Secondo la legge in vigore, un adulto straniero, cittadino di un Paese che non fa parte dell’Unione Europea, deve risiedere legalmente dieci anni in Italia per poter chiedere la cittadinanza italiana. Con il quinto quesito abrogativo l’obiettivo è ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza. Il termine dei dieci anni rappresenta la regola generale ed è tra i più lunghi in Europa. La riduzione a cinque anni del requisito di residenza potrebbe indirettamente semplificare anche il percorso per molti minori stranieri: ad oggi un minore straniero nato in Italia da genitori non italiani non acquisisce automaticamente la cittadinanza ma può richiederla al compimento dei diciotto anni se ha risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia fino a quel momento. Se si è d’accordo con il dimezzamento del requisito di residenza per concedere la cittadinanza italiana agli adulti extracomunitari, bisogna votare 'Sì'. Se si è contrari, bisogna votare ‘No'.
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