“Le poesie erano dunque così: semplici, fatte di niente; fatte delle cose che si guardavano”
Natalia Ginzburg, Lessico famigliare
Winnie Puh, l’ineffabile orsetto creato nel 1926 dallo scrittore londinese Alan Alexander Milne (1882-1956) per il suo figlioletto Cristopher, è un cantore di purissima ispirazione. Alla sua arte lirica potremmo applicare perfettamente un’acuta definizione di Robert Louis Stevenson: “quell’emozione intensa, calorosa, tonificante che si conviene di chiamare poesia è una qualità nomade e inafferrabile”.
Inafferrabile e indefinibile come appunto l’arte sublime di Winnie Puh.
L’affermazione non sembri tuttavia esagerata. Ricordiamo, al riguardo, ciò che scrivono Hans Magnus Enzensberger e Alfonso Berardinelli in Che noia la poesia, citando come esempio Rio bo di Palazzeschi: “Un certo infantilismo governa le tecniche più tipiche e anche raffinate della poesia dell’ultimo secolo”.
Se siamo certi della sua poesia, più problematica è invece la sua poetica.
Qual è infatti il metodo compositivo di Puh? Come nascono i suoi versi? Da dove scaturiscono? La questione non è scontata né di poco conto.
Cominciamo allora col dire che le canzoni gli sorgono “improvvisamente in mente” con impeto e urgenza. Egli d’altronde teorizza esplicitamente questa spontaneità e ne rivendica il primato: “È la maniera migliore di scrivere poesie: lasciare che le cose vengano”.
Un poeta estemporaneo, dunque. Ma la definizione è fin troppo semplicistica e approssimativa. Implicherebbe infatti uno stato passivo e paziente di aspettazione o illuminazione.
Proviamo quindi a contestualizzare la questione. Vediamo come si comporta e conduce il microcosmo che circonda il nostro orsacchiotto.
L’amico Coniglio, per esempio, con il suo raziocinio ottuso, si trova agli esatti antipodi. Egli infatti “non lasciava che le cose gli venissero, ma andava sempre a prenderle”.
Resta da stabilire se poi le trovasse davvero.
Tra il cercare e il trovare, secondo Puh, c’è infatti uno scarto imponderabile.
Quando Coniglio si smarrisce nella foresta insieme a Porcelletto, dove in teoria avrebbe dovuto perdere l’orientamento Tigro, propone una strategia che potremmo definire dell’erranza: “continuiamo a cercare la strada di casa e non la troviamo, così ho pensato che se cercassimo la strada di questa Fossa, saremmo sicuri di non trovarla, che sarebbe una Buona Cosa, perché così potremmo trovare qualcosa che non stiamo cercando, che in realtà sarebbe poi quello che stiamo cercando”.
Una specie di qui pro quo che quadra il cerchio, quindi.
Per Coniglio l’atto del cercare è prioritario, a prescindere da ciò che si cerca, e non ammette deroghe o strategie alternative, anche quando consegna puntualmente un fallimento o un obiettivo divergente.
La via per giungere alla meta è pertanto, non solo tortuosa, ma imprevedibile, nonché frutto talvolta di un doppio errore.
È quella che viene definita serendipità, altrimenti nota in campo filosofico come eterogenesi dei fini. Puh sa che il processo di esternazione delle idee è imprevedibile e perfino infido: “perché quando si è orsi di Pochissimo Cervello, e si pensano le Cose, ci si accorge a volte che una Cosa che dentro di noi sembrava molto Cosevole è considerevolmente diversa quando esce all’aria aperta e la gente la guarda”.
Vi sono cose che non si possono capire razionalmente, ma che in qualche modo devono essere intuite con un’intima appercezione.
Proprio perché “Coniglio ha cervello”, non può comprendere la gratuità di certe motivazioni illogiche e prettamente emotive, come, per esempio, andare a trovare gli amici “perché è giovedì”, non essendo il giovedì di per se stesso un giorno deputato ad alcunché.
Coniglio è il prosaico (anzi, il Prosaico). Non segue l’istinto, bensì una sorta di ragione supponente. “Immagino che sia per questo che non capisce mai niente”, commenta Puh.
Come pervenire dunque alla poesia? Semplicemente lasciandosi andare: “Perché Poesia e Canzoni non sono cose che si possono prendere così, sono loro che prendono te. E l’unica cosa che si può fare è andare dove ti possono trovare”.
Sappiamo già come si arriva in questi luoghi dove abita e vive la Poesia. Alla maniera del flȃneur fantasticante.
Quando infine i versi affiorano, scaturendo da regioni remote e ignote, essi assumono forme non preordinate che sfuggono a ogni controllo creativo.
“È venuta diversa da come mi aspettavo, ma è venuta”, dice Puh della canzone composta in lode delle eroiche gesta di Porcelletto.
La poesia dunque ci spiazza, ci sorprende. Il suo miracolo è sempre frutto di un’imboscata, fatale ancorché salvifica.
Sopraggiungendo autonomamente da imperscrutabili profondità, la poesia ha il potere di autenticare la realtà. Di inverarla.
“Ho davvero fatto tutto questo?”, si chiede incredulo Porcelletto, stupito e lusingato dal resoconto lirico della sua impresa.
La risposta di Puh è illuminante: “be’ sì, Porcelletto, l’hai fatto, perché la poesia dice che l’hai fatto”.
La poesia è indubitabile. Non è il cosiddetto reale a dare credibilità alla letteratura, ma al contrario è quest’ultima a conferire ai fatti, meri fenomeni di un apparire, uno statuto di verità.
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