Dal 2019 ad oggi, Castelvetrano ha visto tre femminicidi. Quello di Daniela La Gumina, il 15 marzo del 2019, uccisa con 7 coltellate dal marito Gino Damiani, che poi si è suicidato. Quello di Maria Amatuzzo, nella frazione di Marinella di Selinunte, massacrata con 28 coltellate la vigilia di Natale del 2022 dal marito Ernesto Favara (poi condannato all’ergastolo). Quello di Mary Bonanno, uccisa con 35 coltellate all’addome e una chiave inglese sulla testa dal marito Francesco Campagna il 6 giugno scorso (poi lanciatosi nel vuoto).
La città ha visto anche due fiaccolate, per Daniela La Gumina e Mary Bonanno. Maria Amatuzzo ha fatto eccezione. Forse perché, da palermitana che viveva a Selinunte da pochi anni, non è stata percepita particolarmente vicina da una popolazione che invece contava tra “i suoi” l’ex pescatore che l’ha uccisa (qualcuno aveva pure commentato che Maria Amatuzzo avesse “rovinato Ernesto”).
Questo non vuol dire che i castelvetranesi abbiano fatto distinzione tra vittime di serie A e di serie B. Ma che la sensibilità, come accade anche altrove, si traduce nella solidarietà per la vittima che, direttamente o indirettamente, conoscevano e nella vicinanza ai familiari, con i quali ci si identifica. È sempre difficile invece il ragionamento attorno alle dinamiche del femminicidio e alle sue determinanti psicosociali, al di là del caso singolo.
Chiaramente è una difficoltà che non riguarda solo Castelvetrano. Anche perché il copione è quasi sempre lo stesso. Così come le domande che la gente si pone: cosa può scattare nella mente di una persona? Com’è possibile che un uomo così mite sia stato capace di tanta crudeltà? È stato un raptus, un momento di follia?
Spesso qualcuno dice anche: sembravano così affiatati. Ma il confine tra l’affiatamento e il controllo non è sempre definito. Se poi si è davanti ad un cosiddetto amore simbiotico (spesso tossico), il giorno che lei vorrà smarcarsi, verrà percepito da lui come un pericolo. Non è nemmeno detto che ci sia un altro. Anzi, a volte è lui che ha un’altra, o più di una. Situazioni che lei non accetta o non vuole più perdonare. Ma che lui sottovaluta, perché “le altre non erano una cosa seria e la donna della mia vita sei solo tu”.
I tre casi di Castelvetrano, sebbene distinti, condividono un filo rosso: la difficoltà maschile di accettare la perdita di controllo sulla partner e la reazione violenta che ne consegue. È l’amore-possesso descritto da Erich Fromm che, lontano dall’essere una manifestazione di forza, è invece frutto cattivo di relazioni pseudo-affettive, centrate appunto sul concetto deviato di possesso. È una profonda immaturità psicologico-affettiva, che si radica in un’emotività infantile in cui il fatto di perdere la “proprietà” di una persona, provoca sentimenti ostili e violenti. In poche parole, è debolezza. Debolezza e rabbia, come quella del bambino che vuole a tutti i costi qualcosa che la madre invece gli nega, e non avendo ancora il pieno controllo degli impulsi, non distingue bene tra pensieri, emozioni e azioni, reagendo con pugnetti, urla e calci, con un’aggressività rivolta proprio alla figura di attaccamento principale.
Nel caso del femminicidio, l’adulto, guidato da emozioni infantili, possiede invece una forza fisica che può tradurre questi impulsi in crimini.
Quasi sempre, inoltre, l’identità del femminicida è definita da quella relazione simbiotica da cui è stato estromesso.
Simile, ancora una volta, a quella che nel bambino tra i due e i cinque anni, è in genere rappresentata dall’unione genitoriale. Se i genitori confliggono in modo profondo o si separano, l’identità del bambino tende a disgregarsi (soprattutto in assenza di supporto psicologico).
Spesso poi è come se per il femminicida la frase “la mia vita senza di te non ha alcun senso”, una volta uccisa la partner, si concretizzasse nel peggiore dei modi, aprendo la strada al suicidio.
Ecco perché è importante riconoscere l’aspetto patologico delle relazioni simbiotiche, che poco hanno a che vedere con l’autonomia e la reciprocità, snodandosi in un’altalena di dipendenza e codipendenza a cui entrambi i partner partecipano, fino a quando qualcosa si rompe e uno dei due (quasi sempre lei) non ci sta più. Sembra scontato, ma non lo è. Soprattutto quando pensiamo a quei casi in cui vicini e conoscenti non fanno altro che sottolineare come si volessero bene, sempre insieme, mano nella mano, dopo decenni di matrimonio. Non è dunque il primo schiaffo che dovrebbe mettere lei in allarme, ma il rapporto simbiotico che permane al di là del periodo dell’innamoramento. Di cui però è difficile accorgersi, almeno fino a quando entrambi vi partecipano.
Queste dinamiche non costituiscono certo una scusante per chi si macchia di questi crimini, anzi è proprio da qui che bisognerebbe partire per tentare una corretta prevenzione, occupandosi di educazione alla relazione sin dalla tenera età. Non basta infatti il solo intervento penale, soprattutto in quei casi (che non sono pochissimi) in cui non ci sono denunce pregresse e, dopo l’uccisione di lei, lui si toglie la vita. In ogni caso, il femminicida, proprio per la connotazione emozionale dei suoi impulsi, non starebbe certo a valutare se quel gesto potrebbe comportare una condanna a 25 anni, l’ergastolo o la pena di morte (che comunque si autoinfligge in caso di suicidio).
Il problema è prevalentemente culturale, ma non bisogna fermarsi all’astratto rispetto nei confronti della donna che non si tocca nemmeno con un fiore. L’educazione alla relazione è un’altra cosa. La prevenzione dei femminicidi (ma anche delle violenze di tipo psicologico), passa dall’elaborazione funzionale della frustrazione, dall’accettare un no.
E se i femminicidi sono tanti, molte di più sono quelle coppie in cui la violenza è di casa, dove la donna viene umiliata e derisa, ma non reagisce per amore dei figli e non denuncia perché magari non ha un lavoro e dipende economicamente dal compagno. Oppure per vergogna o per non rovinare lui, che magari occupa una posizione di prestigio nella società. Tra l’altro i figli vivono in un ambiente in cui, con l’esempio, viene loro insegnato “come ci si comporta col partner”. E il rischio di costruire dei futuri maschi maltrattanti e delle future donne accondiscendenti non è basso.
Certo, a volte la narrazione mediatica non aiuta, soprattutto quando parla di “storie d’amore finite male” o colpevolizza le vittime, impedendo di capire come anche il più turpe dei tradimenti non possa essere “risolto” con la morte.
La strada da fare è ancora lunga per improntare la relazione uomo-donna all’orizzontalità democratica. E non basta aver abrogato il delitto d’onore nel 1981. Anche se sembrano tanti, 44 anni non sono ancora serviti a cambiare del tutto una mentalità radicata da tempo immemore. Il femminicidio di Selinunte, né è un esempio. È come se l’ex pescatore avesse voluto ripristinare il suo onore perduto, dopo che Maria Amatuzzo lo aveva lasciato e stava con un altro. Prima del 1981 gli avrebbero dato da 3 a 7 anni, oggi è stato condannato all’ergastolo.
Un’evoluzione giuridica accolta positivamente? Dipende. Qualcuno intanto sul femminicidio di Selinunte aveva commentato così: “Ma come si fa ad ammazzare così una donna? Va bene, massacrala di botte, lasciala a terra con le ossa rotte, ma non l’ammazzare!”. Ecco, quando uno è sensibile…
Egidio Morici