Sono arrivati in pompa magna, chiusi dentro 18 container, accompagnati da dichiarazioni trionfali del presidente Schifani: "Una risposta concreta all'emergenza idrica". I tre dissalatori destinati a Gela, Porto Empedocle e Trapani sono stati presentati come la grande svolta per contrastare la siccità in Sicilia. Ma i numeri raccontano un'altra storia.
Acqua salata, aspettative altissime
I tre impianti mobili funzionano con il sistema dell'osmosi inversa, e ciascuno può produrre fino a 96 litri di acqua potabile al secondo. In totale, copriranno il fabbisogno di circa 130 mila persone. Peccato che in Sicilia gli abitanti siano quasi cinque milioni, senza contare i turisti. Solo Palermo ne consuma oltre 2.500 litri al secondo. La matematica non è un'opinione.
Sono impianti pensati più per piccole isole, dove la dissalazione rappresenta una delle poche alternative all'acqua trasportata via nave. Ma per un territorio vasto come la Sicilia, è poco più di un cerotto su una ferita aperta.
Un'operazione da 100 milioni
L'investimento totale è di 100 milioni di euro: 90 garantiti dal governo Meloni prima delle elezioni europee, 10 dal bilancio regionale. Una spesa enorme per un beneficio limitato, considerando che ai costi d'acquisto vanno aggiunti quelli di gestione: gli impianti sono energivori, consumano tra i 4 e i 10 kWh per metro cubo d'acqua prodotta. Una quantità di energia dieci volte superiore rispetto a quella necessaria per trattare l'acqua da fiumi o laghi.
E poi c'è la salamoia: il residuo ipersalino del processo di dissalazione. Dove finisce? Di norma, in mare, spesso senza un trattamento adeguato. Non esiste ancora una normativa specifica, e il rischio per gli ecosistemi marini è concreto.
A Trapani l'impianto arriva, ma l'acqua non basta
Uno dei tre impianti è destinato a Trapani, provincia che soffre da mesi razionamenti, pozzi asciutti e agricoltori allo stremo. L'arrivo del dissalatore viene accolto come una speranza. Ma anche qui le aspettative rischiano di trasformarsi in disillusione: la portata dell'impianto è troppo bassa per incidere realmente sul fabbisogno locale.
Nel frattempo, le condizioni degli invasi siciliani restano critiche. A giugno 2025, gli invasi contenevano appena 370 milioni di metri cubi d'acqua, a fronte di una capacità complessiva di 950 milioni. Le province più in difficoltà sono Palermo, Trapani e Agrigento.

Le alternative? Già scritte, ma ignorate
Lo ha ricordato anche Antonella Leto, del Forum siciliano dei movimenti per l'acqua e i beni comuni, intervistata da Francesca Polizzi per A fuoco: "I dissalatori sono una soluzione emergenziale, non strutturale. Servono manutenzione delle reti, recupero delle dighe, riutilizzo delle acque reflue, investimenti sulla gestione pubblica". E non mancano i sospetti su un uso politico e privatistico della crisi. Alcuni impianti, come quelli previsti a Palermo, potrebbero essere realizzati in project financing: una scorciatoia verso la privatizzazione dell'acqua, denuncia il Forum.
La toppa e lo strappo
Nel quadro delle politiche europee, la dissalazione è considerata una tecnologia complementare, utile in zone a forte stress idrico. Ma non può essere l'unica risposta. In Sicilia, dove si perde il 52% dell'acqua immessa in rete, prima ancora di pensare a nuove fonti bisognerebbe occuparsi di ciò che già c'è e non funziona. I dissalatori sono una toppa, e neanche troppo solida, su uno strappo strutturale.
Le infrastrutture idriche siciliane cadono a pezzi, ma si continua a inseguire soluzioni ad effetto, buone per un titolo di giornale, meno per risolvere la sete. Il rischio è che, ancora una volta, a pagare siano i cittadini. E l'acqua, che in Sicilia continua a mancare.