La battaglia del Belice contro eolico e fotovoltaico d'assalto
A Castelvetrano, per una volta, non si è parlato di mafia, ma di pale. Quelle eoliche, alte come grattacieli che ormai circondano le città. E di pannelli fotovoltaici, quelli che promettono energia pulita e che si mangiano vigneti e campi di grano. Qualche giorno fa nel cuore della Valle del Belìce, si è celebrato un consiglio comunale. Al centro, una partita importante: quella tra il diritto di vivere in un paesaggio degno di questo nome e l’ansia da transizione energetica, ma che in Sicilia, a volte, somiglia a una svendita di terreni agricoli “last minute”. Presenti i sindaci (quasi tutti), i deputati regionali (alcuni), gli agricoltori (molti) e i cittadini (tantissimi). Tutti preoccupati che il Belìce, l’ampia zona che unisce le province di Trapani e Agrigento venga sacrificato non sull’altare della modernità, ma su quello del fotovoltaico selvaggio e dell’eolico impazzito. In aula, il clima era quello di una messa solenne con intermezzi da assemblea studentesca anni Settanta. Solo che al posto di occupare le aule, qui si cerca di non far occupare i campi.
«La transizione ecologica sì, ma non a spese della vocazione agricola del territorio», ha detto Marco Campagna, del Partito Democratico, ricordando che non si può passare dal grano antico alla turbina da 200 metri senza almeno un dibattito pubblico.
Già, perché il Belìce non è solo un luogo geografico: è una promessa. È la terra del riscatto agricolo, dell’olio buono, del pane nero, delle vigne a filari larghi. Ma anche – purtroppo – della lentezza decisionale della Regione, che in tema di pianificazione energetica sembra ancora in modalità “si vedrà”.
E infatti, a ben vedere, si è già visto fin troppo. Le richieste di connessione alla rete elettrica per impianti rinnovabili in Sicilia sono quattro volte superiori a quanto previsto dagli obiettivi nazionali. Un entusiasmo che ha superato quello per i bonus edilizi. E Trapani e Agrigento sono le province più “ambite”. Dove c’era un ulivo, ora c’è un inverter. La sindaca di Montevago, Margherita La Rocca, è stata tra le prime a dire basta. Ha lanciato un “manifesto dei tredici sindaci” che chiede una moratoria sulle nuove autorizzazioni, la revoca di quelle inutilizzate e – udite udite – un piano regionale con dentro scritto dove si può e dove non si può piantare una pala o stendere un pannello. Roba da rivoluzionari. Peccato che Giovanni Lentini, sindaco di Castelvetrano, non abbia firmato il documento. «È equivoco», ha detto. Ma più che una presa di distanza, sembrava una richiesta di regole chiare da Roma. Come dire: più Stato, meno lobby. A rincarare la dose ci pensa don Giuseppe Undari, arciprete di Castelvetrano. Cita l’enciclica Laudato Si’ e ammonisce «Ci stanno depredando». E non solo spiritualmente. Il paesaggio, ha detto, viene aggredito “senza vantaggi per clima, bollette o occupazione”. Amen.
Poi ci sono i numeri. A Partanna si rischia che il 70% del paesaggio visibile sia occupato da impianti. A Castelvetrano, il 40%. Altro che colline dolci e rovine greche: presto vedremo le torri eoliche stagliarsi accanto ai templi selinuntini. Nel frattempo, la legge dorme. Il decreto ministeriale del 21 giugno 2024, che doveva stabilire criteri per le aree idonee, è stato annullato in parte dal TAR del Lazio. E così la Regione non può più neppure esercitare quel poco potere di veto che le era stato concesso. Una situazione grottesca. Codici Ambiente, Italia Nostra, FAI, cittadini, agricoltori: tutti chiedono la stessa cosa. Fermarsi. Riflettere. Capire che la sostenibilità non può essere una scusa per nuove colonizzazioni del paesaggio, con l’alibi della lotta ai cambiamenti climatici. C’è un modo per passare all’energia pulita senza sporcare tutto il resto? Forse sì. Ma bisogna iniziare dal rispetto. Per la terra, per chi la lavora, per chi ci vive. E per chi non vuole vedere tramonti fotonici su campi diserbati.
Ora, non è che tutti quelli che difendono il paesaggio siano dei nostalgici della zappa e del carretto. Né che tutti quelli che sognano distese di pannelli solari siano scappati da un episodio di Black Mirror. Ma nel Belice la transizione energetica si è trasformata in un western – con tanto di duello al tramonto – tra chi dice “rallentiamo, così non va” e chi invece urla “accelera, che il mondo brucia!”. La voce più forte, stavolta, è quella di Legambiente: «Non sono le rinnovabili il nemico del paesaggio siciliano, dell’agricoltura e del turismo», dicono. Anzi, la Sicilia deve correre. Più impianti, meno combustibili fossili. E pure con un certo stile, aggiungono: “con una progettazione attenta alla qualità del paesaggio urbano, agricolo e industriale”. Tradotto: pannelli sì, ma magari non davanti al Tempio di Segesta. I numeri, del resto, fanno paura. Per rispettare gli Accordi di Parigi e dare un senso all’espressione “isola del sole”, la Sicilia dovrebbe arrivare a 13 gigawatt di energia rinnovabile entro il 2035. Oggi siamo fermi a 4,5. E il 65% dell’energia elettrica siciliana viene ancora da centrali termoelettriche. Quelle che bruciano roba fossile, puzzano e fanno alzare le bollette. Altro che futuro green. Ma se i numeri sono da allarme rosso, anche le pale (e i pannelli) crescono come funghi dopo la pioggia. Senza regole. Senza piani. E qui scatta il cortocircuito: Legambiente vuole correre, ma i sindaci rispondono che senza regole si finisce nella giungla. Altro che sostenibilità. Lo scontro si è fatto evidente a Gibellina, la città dell’arte contemporanea a cielo aperto, dove un mega impianto fotovoltaico rischia di deturpare quel paesaggio che Ludovico Corrao aveva immaginato come rinascita culturale del Belice. «L’agrovoltaico è un cavallo di Troia», tuona il sindaco Salvatore Sutera. Mentre Sambuca di Sicilia, con il sindaco Giuseppe Cacioppo, è già passato alle vie legali per impedire l’ennesimo parco eolico in contrada Pandolfina. «È troppo vicino alle case, al lago Arancio, taglia pure una pista ciclabile nuova di zecca», sbotta Cacioppo. E non ha torto: lì ci sono già 23 pale.
Dall’altra parte della Siciia, a Lentini, il sindaco Rosario Lo Faro si mette in mezzo e prova a far dialogare i duellanti: «Il fotovoltaico è l’unica strada da perseguire, ma servono leggi chiare». Nel frattempo, si comincia dalle scuole e dagli uffici pubblici, installando piccoli impianti dove davvero servono. E soprattutto senza sfigurare il paesaggio. Il paradosso siciliano è tutto qui: il sole c’è, il vento pure. Quello che manca è il buon senso. O almeno un piano. Perché se la transizione ecologica diventa una corsa all’oro, a rimetterci sarà proprio quel paesaggio che avrebbe dovuto salvare.
Ma non è solo Castelvetrano a serrare le fila contro l’invasione dei giganti a elica. C’è anche Sciacca, dove l’ennesimo mega progetto è stato stoppato. A dire no è stata la Commissione tecnica regionale per la valutazione ambientale, accogliendo l’opposizione di Italia Nostra e Wwf Area Mediterranea. Il parere? “Giudizio negativo di compatibilità ambientale”. Il progetto respinto prevedeva sei aerogeneratori, alti 200 metri, nel bel mezzo della contrada Stazzone, zona già delicata per l’impatto visivo, turistico e culturale. Un intervento che avrebbe “compromesso la fruibilità paesaggistica del territorio”, dicono i tecnici. Tradotto: uno scempio.
Italia Nostra ricorda che non si può fare la rivoluzione energetica demolendo nel frattempo il paesaggio. Perché se ci si mette pure l’eolico a sfigurare le coste, poi non ci resta che venderle ai resort con formula “tutto incluso e poco paesaggio”.
E così si arriva al paradosso siciliano. L’Isola del sole. Del vento. E delle pratiche ferme all’assessorato. Secondo l’Osservatorio economico di Unioncamere Sicilia, il settore è in boom: le imprese green sono passate da 1.409 a 6.161 in un anno, gli occupati da 2.000 a oltre 20.000. Un miracolo energetico, almeno sulla carta. Sì, perché autorizzare non vuol dire realizzare.
Nel 2023 sono state rilasciate 290 autorizzazioni: agri voltaico, eolico, fotovoltaico. Persino un parere sull’eolico offshore (giusto per far contenti anche i gabbiani). In tutto, approvati 10,8 gigawatt, addirittura più di quanto chiede Bruxelles per il 2030. Ma... qui arriva il trucco. Di questi impianti, ne sono stati effettivamente realizzati solo per 4,4 gigawatt. E la Sicilia è al 17% dell’obiettivo previsto. Con un ritardo stimato di 13,6 anni. Altro che corsa. Qui si cammina al rallentatore, inciampando nella burocrazia.
Perché? Perché l’80% dei progetti autorizzati non viene realizzato. Alcuni diventano vecchi prima ancora di partire, altri restano in attesa di varianti, proroghe, revisioni, aggiunte, timbri, bolli e benedizioni. Il 45% è fermo in attesa di aggiornamenti. Intanto, i pali restano sulla carta. E il sole continua a splendere invano.
La CGIL, che con Legambiente ha deciso di giocare il jolly della transizione, chiede una mappa regionale delle aree idonee. Doveva essere pronta mesi fa. Ma tra ricorsi, emendamenti e spinte da parte delle aziende, è rimasta incastrata tra le commissioni dell’ARS. Quelle stesse commissioni che, nel dubbio, preferiscono discutere di sagre e intitolazioni.
Poi c’è il tema del momento: gli impianti di accumulo. Senza di loro, anche tutta l’energia rinnovabile del mondo serve a poco. A Vicari, nel Palermitano, Legambiente ha mostrato il primo impianto di accumulo di Erg, capace di 50 MWh. Strategico, dicono. Necessario, ribadiscono. Ma ancora un’eccezione.
Secondo Terna, la Sicilia ha 322,8 Mw di capacità di accumulo, ed è solo la sesta regione d’Italia. Dovrebbe essere la prima. Perché se l’Isola è la più soleggiata e ventilata, non può restare l’ultima a trasformare questo potenziale in energia pulita, stabile e utile.
E allora, alla fine, resta un grande punto interrogativo sospeso sopra i templi di Selinunte: chi deciderà davvero il futuro energetico della Sicilia?
Le comunità locali che difendono il paesaggio? Le multinazionali che investono miliardi? I sindaci che chiedono regole chiare? Gli ambientalisti che temono l’effetto serra ma anche quello speculativo?
Forse, il vero problema è che in Sicilia la transizione energetica non è né green né brown. È grigia. Grigia come la nebbia delle responsabilità condivise, delle scelte rimandate, delle mappe che non arrivano mai.
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