Il paradosso italiano: lo Stato produce irregolari, poi li criminalizza. E intanto chiede 500.000 migranti regolari dall’estero
In Italia c’è un corto circuito che si ripete ogni anno, puntuale come un decreto: da una parte si moltiplicano gli ostacoli burocratici e legali per regolarizzare i migranti che vivono già qui, integrati, pronti a lavorare. Dall’altra, lo stesso Stato chiede ai datori di lavoro di assumere persone mai viste, da Paesi extra-UE, per farle arrivare con un visto e colmare la carenza di manodopera. È il nuovo Decreto Flussi 2025, che prevede l’ingresso di oltre 500.000 lavoratori stranieri nei prossimi tre anni. Ma a quali condizioni? E a quale prezzo?
Un sistema che crea irregolarità per poi accusarla
Il problema non è l’arrivo regolare di nuovi lavoratori, che anzi è spesso necessario. Il problema è che il sistema italiano è incapace di gestire con coerenza chi è già qui: ragazzi arrivati come minori, migranti in attesa di rinnovo, richiedenti asilo inseriti in percorsi formativi o scolastici, famiglie ricongiunte a metà.
Molti di loro non possono lavorare legalmente non perché non vogliano, ma perché non hanno i documenti per farlo, bloccati da norme in conflitto e tempi d’attesa infiniti. E in questo limbo, si trasformano da “regolari” a “irregolari” per pura inerzia amministrativa.
L’ipocrisia del sistema: si chiudono le porte davanti, si aprono finestre dietro
Con il nuovo Decreto Flussi, il governo autorizza l’ingresso di centinaia di migliaia di lavoratori stranieri nei settori agricolo, turistico, industriale. Ma per farlo, chiede ai datori di lavoro italiani di “prenotarli” all’estero, affidandosi a elenchi, agenzie e ambasciate. Nessun colloquio, nessun contatto diretto, nessuna garanzia che chi arriva sia davvero la persona giusta. Nel frattempo, gli stessi imprenditori agricoli e turistici lamentano di non trovare personale, e migliaia di lavoratori stranieri già presenti in Italia vorrebbero lavorare ma non possono. Alcuni finiscono in nero, altri spariscono nel sommerso e la maggior parte abbandona l’Italia.
Non si combatte l’irregolarità escludendo le persone
Il paradosso è evidente: si preferisce importare nuovi migranti che assumere quelli già formati e radicati qui. Il sistema continua a funzionare per quote e permessi, ma ignora la realtà sociale. E produce un doppio danno: alle persone – che vivono in insicurezza giuridica – e al Paese, che perde lavoratori, paga accoglienze inutili, e alimenta il lavoro nero. Non è solo una questione di numeri. È una questione di dignità, coerenza e buon senso. Chi è già qui, chi ha studiato, chi ha un legame familiare, chi ha già un datore di lavoro pronto ad assumerlo, deve poter ottenere un permesso senza dover sparire prima e riapparire da un’ambasciata dall’altra parte del mondo.
L’Italia non può permettersi di continuare a criminalizzare l’integrazione e premiare solo la burocrazia. Serve una riforma vera del sistema: un permesso unico per chi lavora, studia e ha costruito qui la propria vita. Perché chi è irregolare, spesso, non lo è per scelta. Lo è perché lo Stato glielo impone.
Nel Sud Italia, questa contraddizione è ancora più evidente e drammatica. Le regioni meridionali, da anni, vivono una doppia emorragia: i giovani se ne vanno, le imprese arrancano, e la manodopera agricola, turistica e stagionale manca. Eppure proprio qui – in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Campania – migliaia di migranti vivono integrati, parlano italiano, hanno legami familiari e sociali, ma non possono lavorare legalmente per un vizio di forma, un’attesa, una mancata firma, un decreto che non arriva mai. Il Sud ha sempre saputo accogliere più e meglio, spesso sopperendo all’inerzia dello Stato con reti sociali, parrocchie, comunità, famiglie. Oggi rischia di diventare il paradosso perfetto: terra che accoglie, ma non può integrare legalmente.
Serve un Mezzogiorno protagonista del cambiamento
Se vogliamo davvero rilanciare il Sud, serve smettere di trattarlo come una zona grigia e iniziare a riconoscere che qui si gioca una parte cruciale del futuro del Paese. Non bastano più i bandi e le quote. Servono norme chiare e umane che permettano ai territori di trattenere chi vuole restare, lavorare, costruire.
Il Sud Italia non ha bisogno di clandestini. Ha bisogno di persone regolarmente inserite, tutelate, visibili. E ha bisogno che lo Stato non ostacoli, ma favorisca tutto questo.