Ah, la Sicilia! Terra di sole, mare, e, a quanto pare, anche di "carceri che sono un disastro nel disastro". E' il quadro che emerge dalle denuncia pubblica della sempre energica Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, dopo una recente incursione nelle patrie galere trapanesi. Il quadro che ne è emerso è di quelli che fanno passare la voglia di commettere anche la più innocente delle infrazioni.
Trapani, a sentire la Bernardini, si merita la palma di uno dei peggiori penitenziari d'Italia. E non è un complimento, sia chiaro. Immaginate un luogo dove il concetto di "rieducazione" suona come una barzelletta di cattivo gusto. Tre educatori per centottanta detenuti ciascuno. Il risultato? Nessuna attività, nessuna possibilità di un percorso che non sia quello di fare il "portavitto" o lo "scopino". Ottanta posti di lavoro, sì, ma tutti mestieri che potremmo definire "umili", per usare un eufemismo. Un gruppetto fortunato fa il cuoco o la manutenzione. Gli altri, a ingannare il tempo e a rimuginare tra quelle mura che trasudano disperazione.
E qui viene il bello, o forse il brutto, a seconda di come la si veda: la sanità. Un capitolo a parte, un "disastro nel disastro", appunto. Pensate a uno psichiatra che si concede quattro ore a settimana. Quattro ore. Per chissà quanti casi, chissà quante anime che barcollano sul filo della ragione. Non che a Barcellona Pozzo di Gotto le cose vadano meglio, dove il carcere ha preso il posto di quello che una volta avremmo pudicamente chiamato "manicomio criminale". Lì, la psichiatra, poverina, non può nemmeno firmare una ricetta, perché è neospecializzata e ha un tutor. Diciamo che la salute mentale in carcere è un lusso che pochi, forse nessuno, possono permettersi.
Agatino Scaringi, della Camera Penale di Trapani, usa parole dure, ma a quanto pare appropriate: "Esseri umani trattati in modo inumano". Manca il rispetto, mancano i diritti umani fondamentali. Letti a castello senza scala, dove bisogna fare una sorta di salto per raggiungere il piano superiore. Cinque soggetti in una cella per venti ore su ventiquattro, con le pareti che trasudano muffa e la sensazione di essere un numero, non una persona.
E poi, i casi singoli, quelli che ti stringono il cuore. Il soggetto con problemi psichiatrici mai visitato in sei mesi. Gli atti di autolesionismo, un grido disperato che nessuno sembra voler ascoltare. E il suicidio, l'ultimo in ordine di tempo, una "morte annunciata" secondo i visitatori. Un giovane di 29 anni, detenuto da nove mesi per droga, si è impiccato. Aveva già tentato di togliersi la vita, ma nessuno ha mosso un dito. La Procura ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio, come se bastasse un'indagine a lavare via la coscienza di un sistema che sembra più interessato a rinchiudere che a recuperare, a punire che a prendersi cura.
La Sicilia, si sa, è una terra di contrasti, di luci e ombre. Ma le ombre che si allungano sul carcere di Trapani sono troppo scure per essere ignorate. Non si tratta solo di condizioni disumane, di mancanza di personale o di carenze strutturali. Si tratta di un'idea di giustizia che, in certi luoghi, sembra essersi smarrita per strada, lasciando dietro di sé solo macerie umane e la fredda indifferenza di mura che non parlano, ma urlano il loro disagio.
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