Gentile redazione di TP 24,
in genere non sono abituata a commentare un articolo pubblicato in un giornale, ma la vostra edizione on-line ha pubblicato un articolo sulla sentenza emessa dal Tribunale di Torino in merito alla nota vicenda di Lucia Regna mi spiace, ma non sono riuscita a trattenermi.
In detto articolo si affermava che il Giudice Gallo Presidente del collegio giudicante che ha emesso pubblicato e motivato la sentenza di cui sopra, in fondo aveva solo applicato il diritto, e che in Italia il Giudice deve essere libero e indipendente ed applicare la legge vigente, ovviamente non può e non deve essere influenzato dagli umori della piazza e da una giustizia populista.
Deve pertanto, valutare i fatti e vedere se gli stessi rientrino in una fattispecie di reato oltre che giudicare se quei fatti possono essere attribuiti all'azione dell'imputato, in poche parole i reati vanno provati.
Tutto assolutamente vero e condivisibile. Esattamente come sono condivisibili le critiche avverso l'iniziativa di raccogliere le firme contro un magistrato per allontanarlo dalla professione per una sentenza non gradita.
Ma le motivazioni contenute nella sentenza sul caso Regna sono qualcosa di più e quindi passibili di critica.
Quando ho letto le motivazioni della sentenza ho pensato, che la stessa fosse uscita dai polverosi archivi di un Tribunale di provincia degli anni '50 e non del 2025.
Il giudice non si limita a motivare l'assoluzione per il reato di maltrattamenti in famiglia in capo all'imputato, con la mancanza di prove certe univoche e concordanti sulla fattispecie di reato contestato, ma si lancia in una filippica di motivazioni di natura moralistica in cui i fatti contestati sono il presupposto per critiche durissime relative alla condotta personale della vittima.
Nella sentenza si afferma che la condotta della vittima moglie dell'imputato non è irreprensibile, la si accusa di adulterio, che ha osato lasciare il marito sfaldando un matrimonio ultraventennale, ed ha osato andare a convivere con il nuovo compagno insieme ai figli nell'abitazione coniugale, pertanto, è umanamente comprensibile l'atto di violenza estrema dell'imputato nei confronti dell'ex coniuge, giustificando e legittimando la normalizzazione della violenza di genere.
Tra l'altro, la vittima dal momento che è andata a convivere con il compagno e figli viene stigmatizzata come una non buona madre.
Ma vi è di più, si afferma, che le dichiarazioni delle parti civile costituite nel processo e cioè la vittima e i due figli non sono attendibili, in quanto portatori di interessi economici e patrimoniali, ma bisognerebbe specificare che qualsiasi parte civile costituitasi nel processo è di per se portatrice di interessi economici.
Pertanto, la vittima è colpevole di essersi innamorata di un altro uomo, di avere chiesto la separazione dal marito dopo un matrimonio ventennale, e quindi meritevole di avere cambiati a pugni i connotati.
Bene ha fatto la Procura della repubblica ad impugnare in appello la sentenza per non incentivare e normalizzare la violenza di genere nei confronti delle donne.
Vi prego cortesemente, astenetevi, asteniamoci tutti, da qualsiasi commento al prossimo femminicidio in quanto l'omicida, avrà sicuramente avuto delle buone ragioni per farlo.
Uno spot pubblicitario di una nota assicurazione dice " che nascere donna non dovrebbe essere un rischio", oggi in Italia nascere donna non solo è un rischio ma è una grande sfortuna.
Mimma Caleca
Gentile corrispondente,
capisco perfettamente la sua indignazione. Anzi, la sua lettera non fa che confermare la necessità di questo dibattito.
Il cuore della sua critica è limpido: il giudice Gallo (e il collegio) non si è limitato ad applicare il diritto, ma si è lasciato andare a «una filippica di motivazioni di natura moralistica», accusando la vittima di adulterio, di non essere una buona madre e di aver sfaldato il matrimonio con una comunicazione troppo «brutale». Lei afferma, in sostanza, che la sentenza non solo assolve il marito dall'accusa di maltrattamenti per assenza di prove (il che è legittimo), ma giustifica e legittima la violenza di genere, lasciando intendere che, se l'uomo ha cambiato i connotati alla moglie a pugni, in fondo, aveva le sue ragioni.
Lei ha ragione, Mimma. Se la sentenza dice che una moglie che si innamora di un altro e chiede la separazione si merita di essere picchiata, allora quella sentenza non è una cosa del 2025, ma un documento uscito da un polveroso archivio del peggior tribunale di provincia degli anni ’50. E noi siamo i primi a dirlo: le considerazioni sul metodo di comunicazione della separazione o sulla presunta irresponsabilità della madre sono inopportune, anacronistiche e profondamente sbagliate, perché nulla, assolutamente nulla, può giustificare la violenza fisica. E su questo, chiariamolo, non c'è dibattito possibile.
Ma qui sta il punto, e le chiedo di seguirci con la stessa attenzione che ha dedicato al nostro articolo. La nostra difesa non era rivolta al moralismo paterno del giudice (che andrebbe sanzionato, ma in altre sedi e con altri strumenti), ma alla sua libertà di giudizio nel momento in cui decideva il reato più grave: i maltrattamenti.
Se il reato di maltrattamenti richiede l’abitualità (come prevede l'Art. 572 c.p.), e se il collegio ritiene che, al netto del moralismo, non ci siano le prove per dimostrare l'abitualità, allora assolvere per quel capo d'accusa è applicare la legge. Il problema, Mimma, non è che il giudice abbia assolto il marito dal reato di maltrattamenti, ma che lo abbia fatto con motivazioni che, lei stessa lo sottolinea, sconfessano la sensibilità dei nostri tempi.
Perché difendiamo un giudice che si è espresso in modo così discutibile? Perché, anche se ha sbagliato le parole, non ha sbagliato l’azione legale: ha condannato l'uomo per il reato di lesioni (il pestaggio) a un anno e sei mesi. Ma soprattutto, perché la reazione della piazza non è stata contro il moralismo delle motivazioni, ma contro l’assoluzione parziale. Si è chiesto di rimuoverlo perché il risultato processuale non è piaciuto, non per le sue discutibili opinioni sulla madre.
Lei dice giustamente che qualsiasi parte civile è portatrice di interessi economici. Verissimo. Ma è prassi consolidata della giurisprudenza che il giudice debba valutare la credibilità della parte lesa con estrema cautela, proprio a causa di quegli interessi economici. Quando il Tribunale evidenzia le incongruenze nelle dichiarazioni della vittima (come la "trasfigurazione" del fatto del figlio), non fa moralismo, ma valutazione della prova. Una valutazione che, per quanto dolorosa e per quanto sgradevole, fa parte del processo.
Lei conclude con un amarissimo invito ad «astenerci tutti, da qualsiasi commento al prossimo femminicidio in quanto l'omicida, avrà sicuramente avuto delle buone ragioni per farlo». Ed è qui che la sua indignazione, pur comprensibile, cede al populismo giudiziario. L'omicida non avrà mai "buone ragioni" e non è questo che dice la sentenza. La sentenza ha condannato un uomo per violenza, e il nostro articolo criticava la gogna mediatica contro un magistrato che ha cercato di distinguere tra i diversi reati.
Senza un giudice libero di applicare una legge oggettiva – anche quando le sue motivazioni sono moralmente biasimevoli – non avremo un sistema giudiziario più giusto, ma solo più emotivo, e quindi più esposto alle manipolazioni di chi, per qualche firma o qualche voto, attacca le fondamenta dello Stato di diritto. Il populismo si combatte con la ragione, non con l’emozione.
Giacomo Di Girolamo