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21/10/2025 06:00:00

I processi Eirene e Scialandro: i fili invisibili di Cosa nostra tra politica e affari

I processi, Eirene e Scialandro, nati dalle rispettive operazioni antimafia si muovono su binari paralleli, raccontando la continuità e la capacità di adattamento di Cosa nostra trapanese, tra vecchie faide e nuovi interessi economici.

 

Dietro i nomi degli imputati e le relazioni investigative, affiora il disegno di un potere che non ha mai smesso di rigenerarsi. Dal sangue versato negli anni ’80 e ’90 alle più recenti infiltrazioni negli appalti e nella politica locale, il filo conduttore resta la gestione silenziosa del territorio, il controllo sociale, l’intreccio con l’economia legale.

 

Il "ribaltone" nel mandamento di Trapani

Nel processo Scialandro, dedicato alle presunte infiltrazioni mafiose nel Comune di Custonaci, è stato il sovrintendente Roberto Sanclemente della DIA a ricostruire l’evoluzione interna delle famiglie mafiose del trapanese.
Davanti al collegio presieduto dal giudice Carrara, l’investigatore ha riportato alla luce un episodio rimasto per anni avvolto nel silenzio: il cosiddetto “ribaltone” dentro Cosa nostra trapanese, quando – agli inizi degli anni ’80 – dopo l’eliminazione del vecchio boss Totò Minore, il controllo del mandamento passò di mano, non senza tensioni.

A contendersi la successione furono i Mazzara di Custonaci, antica famiglia mafiosa con radici nel mondo rurale e negli affari legati all’edilizia e al calcestruzzo. Ma a sorpresa, e secondo le intercettazioni raccolte durante l’indagine, la leadership fu affidata al trapanese Vincenzo Virga, poi condannato all’ergastolo per l’omicidio del sociologo Mauro Rostagno.

 

Virga era il capo, ma i Mazzara tenevano la cassa del mandamento”, ha spiegato Sanclemente. Una forma di autonomia economica che, nel tempo, avrebbe alimentato rivalità e propositi di eliminazione.

 

La relazione della DIA delinea un quadro di interessi ramificati: dalle estorsioni agli imprenditori locali alle pressioni su allevatori e aziende agricole, passando per il controllo di cave, betoniere e subappalti. In quel microcosmo di omertà diffusa – racconta l’investigatore – si consumavano atti intimidatori efferati, come il ritrovamento di teste di vitelli mozzate lasciate davanti alle aziende di chi rifiutava di piegarsi al pizzo.

Il processo Scialandro non si limita però alla memoria storica: le accuse riguardano rapporti opachi tra i clan e una fitta rete di favori, appalti e silenzi. Gli inquirenti hanno tracciato, attraverso intercettazioni e documenti, un intreccio tra esponenti mafiosi e funzionari locali.

 

 

La voce del "malandrino": Giosuè Di Gregorio e la faida di Alcamo

Sempre nelle aule del Tribunale di Trapani, si svolge il processo Eirene, scaturito dall'omonima inchiesta della Squadra Mobile di Trapani che vede tra gli imputati di maggior rilievo Nino Papania, ex senatore alcamese, accusato di voto di scambio politico-mafioso e Pasquale Perricone, ex vicesindaco di Alcamo, ritenuto dagli inquirenti il mediatore tra esponenti mafiosi e ambienti politici per ottenere voti in modo illecito alle ultime elezioni regionali a favore del candidato Angelo Rocca, poi non eletto.  Nome noto agli investigatori in questa inchiesta è Giosuè Di Gregorio, 55 anni, presunto boss della famiglia mafiosa di Alcamo.
 

Io faccio il malandrino per campare”, si vantava al telefono in una delle intercettazioni finite agli atti, rivendicando il suo ruolo di “rappresentante della famiglia di Alcamo” e la gestione degli “interessi” mafiosi nel capoluogo.

Il processo, presieduto dal giudice Franco Messina, nell'ultima udienza ha visto anche la testimonanza dell’ispettore Giuseppe Cuciti, chiamato a riconoscere e contestualizzare le voci intercettate durante anni di indagini.
Dalle registrazioni emergono storie di estorsioni, traffici di droga, armi e pressioni su imprenditori, ma anche i ricordi di una stagione di sangue: la faida di Alcamo degli anni ’90, quando i Greco si scontrarono con i Milazzo e i Melodia, in una guerra che seminò decine di morti.

Erano quelli di San Giuseppe Jato che venivano a sparare, poi ci siamo messi da parte”, ha detto Di Gregorio, rievocando i tempi in cui il suo gruppo appoggiava i Greco nella contesa per il controllo del territorio.

Tra le vicende più recenti discusse in aula, anche una presunta estorsione al gestore di un centro ippico di Alcamo, nata da contrasti economici e nella quale spunta il nome dell’ex vice sindaco Pasquale Perricone, accusato di essersi avvalso dell’intermediazione mafiosa di Di Gregorio per intimidire un rivale.
Questo quando ci vede si piscia addosso”, commentava il boss, intercettato, parlando di uno degli imprenditori coinvolti.

 

 

I processi Eirene e Scialandro non raccontano solo episodi di cronaca giudiziaria, ma la lunga persistenza del potere mafioso in provincia di Trapani, capace di mutare pelle senza perdere sostanza.
Dagli anni delle faide armate a quelli della penetrazione negli uffici comunali, la logica resta la stessa: controllo, paura, consenso.

Gli investigatori descrivono oggi un’organizzazione meno visibile ma ancora radicata, capace di influenzare scelte economiche e politiche locali, e di sopravvivere alla frammentazione dei clan.
Nonostante arresti, collaborazioni e processi, Cosa nostra continua a vivere nelle pieghe della quotidianità, nei silenzi, nei favori reciproci, nelle complicità. Un mosaico che la giustizia prova a ricomporre, tassello dopo tassello, nelle aule dei due processi.