Mattarella, e la mafia che uccide due volte. L’Italia e l'infedeltà di Stato
L’arresto dell’ex prefetto Salvatore Piritore per depistaggio nell’omicidio di Piersanti Mattarella scuote ancora l’Italia. Il giorno dopo, giornali e politici si interrogano su come un funzionario dello Stato possa aver sottratto — e fatto sparire — un reperto chiave come il guanto del killer del presidente della Regione Siciliana, ucciso a Palermo il 6 gennaio 1980. E, soprattutto, su quanto questo gesto abbia pesato nel ritardare di quasi mezzo secolo la verità su uno dei delitti politici più emblematici della Prima Repubblica.
“Qualcuno mi avrà detto di farlo”: la versione di Piritore
Davanti al gip, l’ex prefetto ha parlato di “amnesie” e di un possibile “ordine ricevuto”: «Qualcuno mi avrà detto di agire così, ma non ricordo chi». Parole che evocano il clima torbido e gerarchico di quegli anni, dove spesso l’obbedienza contava più della verità.
Piritore si è definito “confuso”, “non lucido”: «Non ricordo di aver portato via nulla, ma se l’ho fatto, era per consegnarlo a qualcuno». Gli inquirenti della Procura di Caltanissetta, però, ritengono che non si tratti di un gesto isolato, bensì di una manovra deliberata per alterare la scena del crimine, utile a coprire mandanti e complici in un contesto in cui mafia, politica e ambienti neofascisti si intrecciavano.
La pista nera e la “via crucis” di Falcone
Tutto converge su un punto: il delitto Mattarella non fu solo mafioso. Le "ombre nere” di quell’omicidio passano per la galassia neofascista dei Nar e per l’intreccio con gli apparati deviati dei servizi segreti. Lo ricorda anche l’ex magistrato Roberto Scarpinato parlando della “via crucis di Falcone”: fu proprio il giudice, nei primi anni ’80, a tentare di riaprire la pista politica, trovandosi però contro silenzi, ostacoli e veti. “Ogni passo verso la verità — scrive Scarpinato — era un passo contro lo Stato stesso".
Dai guanti alle pistole: riaperti i dossier
Oltre al guanto scomparso, gli inquirenti hanno deciso di riaprire i fascicoli su altri elementi misteriosi. Come il “giallo delle targhe false e delle pistole scomparse”, parte del materiale repertato nel 1980 e mai più ritrovato. Pezzi di un mosaico che, se ricomposti, potrebbero ridisegnare la mappa dei depistaggi.
Anche le carte sul ruolo di alcuni ufficiali dell’epoca — legati alla polizia e ai servizi — sono state riesumate: l’ipotesi è che il depistaggio sia stato organizzato, non frutto di un’iniziativa individuale.
“I nostri morti traditi dallo Stato”
Durissima la reazione dei familiari delle vittime di mafia e terrorismo. “I nostri morti traditi dallo Stato” titola Repubblica Palermo, citando il dolore di chi da decenni chiede verità e giustizia. “Abbiamo creduto nelle istituzioni, ma ci hanno nascosto la verità”, dicono i familiari di Mattarella e di altri caduti. Claudio Fava scrive che “la mafia uccide due volte: la prima con le armi, la seconda quando lo Stato mente su chi ha sparato”. Scrive Fava su Repubblica: "Noi ammazziamo sempre due volte!», disse un giorno in una corte d’Assise Angelo Siino, defunto ministro dei lavori pubblici nel governo ombra di Cosa nostra. Spiegò che la prima volta i nemici se li ammazzavano a raffiche di mitra oppure facendoli saltare in aria su una santabarbara di tritolo; la seconda volta, trasformando la loro morte e la loro vita in coriandoli, quinte di cartapesta, giochi di prestigio. Detto semplice semplice: depistando".
Gli eroi e gli infedeli
Sempre descrive la Palermo di piombo come un laboratorio dove “accanto agli eroi dell’antimafia si muovevano gli infedeli dello Stato”. Poliziotti, funzionari e uomini dei servizi che scelsero di insabbiare, di deviare, di proteggere. E in questo scenario, l’arresto di Piritore diventa un simbolo: la resa dei conti con una stagione di doppiezze e connivenze.
Violante: “Due strategie eversive dietro quel delitto”
L’ex presidente della Camera Luciano Violante parla di un delitto “con due motori”: la mafia e l’anticomunismo eversivo. «Mattarella rappresentava un progetto di modernizzazione e moralizzazione della Sicilia. Per questo doveva essere fermato», dice Violante, secondo cui la nuova inchiesta «riporta alla luce non solo un depistaggio, ma un disegno politico di destabilizzazione».
Casson: “Quel legame tra boss, servizi e neofascisti resiste ancora oggi”
Il giudice Felice Casson, che da anni indaga sui legami tra eversione nera e poteri deviati, aggiunge in un’intervista: «Non fu solo la mafia a volere Mattarella morto. Ci fu un patto oscuro tra i boss e i settori dei servizi che temevano una Sicilia governata con rigore democratico». Per Casson, i documenti desecretati negli ultimi anni dimostrano che “il filo che lega gli omicidi politici degli anni di piombo e quelli mafiosi non si è mai spezzato del tutto”.
Orlando: “Arriveranno altre verità”
L’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha commentato la svolta: «Non è mai stata solo una questione di mafia. Dietro quell’omicidio c’erano interessi nazionali e internazionali. Questa inchiesta ci dice che altre verità stanno per emergere». Parole che confermano quanto, ancora oggi, il caso Mattarella resti una ferita aperta per la Sicilia e per l’intero Paese.
Un Paese davanti allo specchio
Mentre l’ex prefetto Piritore balbetta “non ero lucido”, la magistratura nissena scava nei sotterranei dello Stato. Le famiglie delle vittime parlano di “dolore antico”, i magistrati di “una verità negata”, e l’opinione pubblica scopre che il depistaggio non fu una deviazione marginale, ma un metodo sistemico.
“L’Italia deve ancora decidere se vuole davvero sapere”, ha scritto Claudio Fava. Perché, quarantacinque anni dopo, la morte di Piersanti Mattarella continua a raccontare la solitudine di chi cercava di cambiare la Sicilia e la complicità di chi, dentro lo Stato, preferì che nulla cambiasse.
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