“Sono fatto delle parole che mi sono state negate e di quelle che ho imparato a trattenere”.
Dice di sé il poeta salemitano Giovanni Rubino, quando gli chiediamo come presentarlo ai nostri lettori.
Parole come pietre, parole di fuoco, ma anche parole lenitive di tutti i dolori accumulati e repressi in tantissimi anni, sin dalla età dell’innocenza perduta, e poi lentamente affiorati in superficie fino alla decisione di uscirle dal cassetto della memoria e affidarle al giudizio dalla Carthago Edizioni di Catania che fin da subito ha creduto in lui pubblicandole nella elegante raccolta poetica “Rimi e Spini – Cuntu e Cantu” di Semproniu.
Gia’ nella scelta del nome de plume, uno pseudonimo che allude ad un uomo qualunque, un anonimo “viaggiatore comodamente seduto in terza classe”, troviamo il primo indizio per avviarci a capire la complessa personalità del nostro autore:nello sdoppiamento pirandelliano del nome, nel gioco di specchi, elementi abbastanza rivelatori.
Il secondo indizio ci viene fornito dalla scelta della lingua, il siciliano. E non poteva essere diversamente, congeniale ad un figlio di una terra antica, dalle “mani spaccate dal sole”, come egli stesso aggiunge di essere.
Per “raggiungere la madre” di noi tutti, la Natura, precisa, lo strumento non può non essere che la lingua madre.
Del resto, altri piu’noti, da Pier Paolo Pasolini di “Poesie a Casarsa” , al bagherese Ignazio Buttitta di “Io faccio il poeta”, e al marsalese Nino De Vita dei “Cùntura” e “Nnòmura” , universalmente riconosciuto tra le voci più autentiche e affascinanti della letteratura italiana contemporanea, hanno raggiunto i massimi vertici della poesia utilizzando l’idioma dialettale.
Un percorso di vita tormentato, quello di Giovanni Rubino, picciutteddu di campagna, cresciuto in solitudine, perennemente avvolto da un cupo e silenzio familiare, ma che non gli ha impedito di andare alla ricerca delle “parole” , sempre negate .
Ecco. “La Parola”, la parabolè dei greci, l’elemento base per comunicare con l’altro, e’ questa la chiave per entrare nel mondo onirico, incantato e sofferto di Giovanni. Un miraggio intravisto e e sempre sfuggente e mai raggiunto.
All’ombra dell’onnipresente e muta figura paterna da cui tenta di liberarsi ed emanciparsi, in un ambiente familiare in cui le manifestazioni di affetto erano rare e “ci si guardava e ci si parlava poco”, lui, sognatore e innamorato della vita, invece, “circava paroli, vulia paroli”. E ce lo confessa mentre a stento trattiene le lacrime, come fosse una colpa che lo opprime da sempre e da cui cerca di liberarsi.
«I figghi di papà studianu, tu vai a travagghiari», ripeteva imperiosamente il padre, quando Giovanni accennava timidamente di volere proseguire gli studi scolastici.
A tredici anni, il duro lavoro nei campi prende il posto dei banchi scolastici, le parole diventano un lusso proibito, una sete di conoscenza mai dissetata. Ma, come nei contrappassi danteschi, sarà proprio quella privazione a trasformarsi in resistenza: più gli mancavano, più lui le inseguiva e più le faceva sue, le conquistava e le serbava nell’anima.
“Vegnu di na famigghia ranni”, racconta, dove si parlava poco, per necessità, forse anche per scelta, in cui la “parola” diventava un tesoro raro e sconosciuto.
Fino a quando, come in una favola araba, le parole tanto inseguite saranno esse a trovarlo, sotto le sembianze di libri polverosi.
Tanti volumi della signora Franca, la proprietaria delle terre che il padre coltivava, destinati ad essere divorati dalle fiamme. Giovanni li salva dal rogo. Invece che cenere, saranno l’humus che alimenterà la sua nuova esistenza, segneranno la pietra miliare, la linea di confine tra il buio del passato e la luce del futuro.
Comincia ad aprirli questi libri salvati dalle fiamme, timidamente li sfoglia, ne annusa le pagine, “ci infilava u nasu dintra”, precisa in modo colorito. La sera, in una stanza dalle cui fessure penetrava il lamento dello scirocco d’estate o l’ira della tramontana d’inverno sotto le coperte li leggeva, le parole lo spettavano.
Cominciava ad avere maggiore consapevolezza del valore delle parole. Gli si aprivano le porte di un mondo sempre vagheggiato, ma sconosciuto. L’incontro tanto agognato con la “parola” portatrice di libertà e di magia finalmente si avverava.
Da quel momento le parole diventano la colonna sonora del suo mondo interiore, vanno in frantumi gli eterni silenzi del passato, silenzi piu’ pesanti dei sacchi di grano o di avena caricati sulle sue giovanili tenere spalle.
Cominciò ad imparare l’uso delle parole per dotarle delle ali della poesia, della capacità di raccontare la storia e le emozioni di un giovane che dopo essere cresciuto tra la durezza dei campi assolati, incontra la magia scaturita dai libri salvati dalla furia distruttrice di una padrona insoddisfatta.
Piu’ che un esercizio di memoria, “Cuntu e cantu”, due locuzioni che reggono l’ossatura di questa sua prima opera, ci e 'sembrata essere una “confessione” pubblica, che, sotto forma di un “cuntu”, un racconto cadenzato dal ritmo dialettale, narra verità di esperienze vissute, ritenute inconfessabili, marcate da sensi di colpa alimentate dalla onnipresenza della figura di un padre padrone.
Raccontare per non dimenticare, cantare per non spegnersi. L’eco della cantatrice siciliana Rosa Balistreri vibra forte nei suoi versi. Come la per voce ruvida e antica della licatese, anche i versi di Rubino trasformano il dolore individuale in sofferenza collettiva, e dentro la quale ognuno di noi si intravede.
In un’epoca in cui il mondo sembra cominciare a sfidare i confini, Rubino/Semproniu resta ancorato “al qui e ora”, a cio’ che sembrava immutabile, la casa, la strada, i campi, gli alberi, i racconti dei vicini di casa attorno al braciere quando faceva freddo, o quando i raggi del sole colpivano impietosi, all’ombra di un grande carrubo “chi paria un teatru all’apertu”,
Le “rimi” le note musicali del ricordo; le “spine” le ferite del dolore, la fatica, la disillusione. Insieme, “rimi e spine” raccontano una vita di un uomo ma anche di un popolo: la durezza della terra, il silenzio delle famiglie contadine, la volontà di affermare la propria voce in un mondo che spesso la ignora. Il dialetto in queste pagine non è semplice colore locale, ma assume le sembianze della lingua-matrice, corpo vivo, luogo dell’identità.
Scrigno di bellezza, l’opera di Semproniu/Rubino è anche un documento culturale, una testimonianza della Sicilia rurale e della sua tradizione narrativa. Ogni testo è un frammento di storia, una scheggia di memoria collettiva che diventa materia letteraria. Riesce in questo a costruire un ponte tra passato e presente, trasformando il vissuto personale in un racconto universale.
Se il titolo suggerisce la natura duale dell’opera: “Rimi e Spini”, rime e spine, dolcezza e ferita, poesia e dolore, il sottotitolo “Cuntu e Cantu”, invece, richiama l’antica tradizione orale siciliana, fatta di racconti tramandati e canti che segnano identità e appartenenza. Basti ricordare Ciccio Busacca, tra i tanti.
Il nostro autore riesce a fare della parola un suo personale strumento musicale: un impasto linguistico sapiente, vivo, armonico, radicato nella cultura popolare, che riesce a restituire non solo emozioni, ma interi mondi.
I suoi versi evocano cortili assolati, giochi di bambini, terre bruciate dal sole, voci di comunità. È la Sicilia delle memorie, quella che sopravvive nei dettagli, nei profumi, nei suoni che il tempo non è riuscito a cancellare. L’autore non si limita a ricordare: trasforma il ricordo in poesia, e la poesia in un ponte tra passato e presente.
Ma anche sotto forma di una favola visionaria, come quando racconta l’incontro folgorante con Balak , un bambino “na linticchia di cristianu” che per auto consolarsi deride le disparità sociali : “cu e’ riccu unn’avi nenti, cu e’ scarsu e’ ‘mezzu i rosi”.
Non è un semplice libro di versi, ma un autentico scrigno di memoria. Un cofanetto prezioso in cui sono custoditi frammenti di vita, reliquie emotive e immagini che attraversano l’arco di una intera esistenza, lungo la parabola che porta dall’incanto dell’infanzia alla maturità consapevole.
Non ama, Rubino, gli abusati stereotipi che tutto appiattiscono, li smitizza anzi, quasi ad apparire un cinico impenitente, un artificio per nascondere i suoi segreti dolorosi, come quando rivolgendosi tra le lacrime ad una madre ideale, puntando il dito, accusa:
Tu chi ti spacci matri,
matri di quali figgi?
Tu quannu chiuri l’occhi,
dimmi chi sonnu pigghi
Oppure quando si rivolge al proprio paese natio tanto amato, ma fonte di dolore perché ferito dalla violenza del terremoto, mortificato ogni giorno da un sistema che tradisce i propri figli, e oltraggiato dal triste fenomeno dell’emigrazione:
“…pensu a quanti figghi comu tannu…s’attaccanu li scarpi e sinni vannu, luntanu sti cuntradi, sti cantuna, ‘nte manu a li spustati, a la vintura…”.
“Rimi e Spini – Cuntu e Cantu” è un libro necessario, perché preserva un patrimonio intimo e collettivo al tempo stesso. L’autore riconsegna alla parola la sua funzione originaria: lenire, curare, ricucire, castigare. I suoi versi diventano un medicamento dell’anima, un gesto di riconciliazione con il proprio passato e, allo stesso tempo, un dono per chi legge e una frusta
E’ stato ribadito più volte che solo con il dialetto si possono esprimere i sentimenti più intimi e profondi dell’animo. La conferma l’abbiamo con questa preziosa raccolta di poesie, un libro da acquistare e leggere.
Pubblicato in una elegante edizione dalla Cartagho Edizione di Catania, il libro e’ disponibile presso edicole e librerie, nella provincia di Trapani e nel resto dell’Isola. E’ inoltre distribuito attraverso le principali librerie online.
Mentre l’attore e regista Giorgio Polara ha manifestato l’intenzione di realizzare un recital ispirato alla storia di Semproniu, e ai canti del libro. L’idea sarebbe quella di allestire una rappresentazione teatrale.
Franco Ciro Lo Re