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24/12/2025 06:00:00

Mafia, quando la giustizia rompe il silenzio burocratico. Il caso Intorre - Amico

Ci sono storie che non cominciano con un delitto ma con una mancanza.
Quella delle famiglie Intorre e Amico è fatta di carte, di anni che scorrono, di sportelli ministeriali che sembrano deserti metafisici. La storia di tre donne con un cognome segnato da una ferita antica: Michele Amico, marito e padre, ucciso dalla mafia nissena nell’ottobre 2003 e classificato da una sentenza della Repubblica come “vittima innocente”. Una definizione che dovrebbe aprire porte, non lasciarle socchiuse.

 

Michele Amico è stato un commerciante di Caltanissetta, tabaccaio, ucciso dalla mafia il 23 ottobre 2003 perché si rifiutava di pagare il pizzo, diventando un simbolo di resistenza contro il racket dopo ripetute intimidazioni e atti vandalici.

 

Invece, per quasi un decennio, lo Stato ha risposto a quella parola — vittima — con qualcosa che somiglia a un silenzio amministrativo. Prima l’attesa. Poi i moduli prestampati. Poi le richieste di documenti. Poi i decreti sbagliati, da correggere. E infine un diniego scritto con la freddezza che solo un ufficio sa produrre: niente assegno vitalizio, perché la domanda era stata inviata via PEC invece che sul portale. Come se la memoria di un morto potesse inciampare in una procedura informatica.

A guidare questa battaglia, passo dopo passo, sono stati due avvocati che non hanno mollato mai: Salvatore Ferrara, del Foro di Palermo, e Umberto Ilardo, del Foro di Caltanissetta. Sono stati loro a tenere insieme questa pratica come si tiene insieme una ferita che non smette di pulsare.

Ma a spezzare questo circolo sono stati i giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa regionale con una sentenza dell’ottobre scorso (Presidente Roberto Giovagnoli, estensore Sebastiano Di Betta) che blinda il capitolo finale di un romanzo civile, restituendo senso a parole che negli anni erano diventate un mantra vuoto: tutela, diritto, giudicato.

 

Il CGA lo dice chiaramente: qui non si discute di un beneficio economico come tanti. Qui si discute del legame più delicato che uno Stato può avere con i suoi cittadini: quello con chi ha pagato la violenza mafiosa senza essere parte di nessun regolamento di conti.

Quando la Corte d’Appello di Caltanissetta, nel 2023, scrisse che alle tre donne spettavano “tutti i benefici di legge”, la frase era già un sigillo. Una formula ampia, deliberata, che racchiudeva tutto ciò che l’ordinamento riconosce alle famiglie delle vittime: le elargizioni storiche delle leggi 302/1990 e 407/1998, ma anche quello speciale assegno vitalizio introdotto nel 2007 per equiparare le vittime della mafia a quelle del terrorismo.
Non servivano ulteriori richieste, ulteriori moduli, ulteriori battaglie.

 

E invece il Ministero ha provato a spostare l’asse della storia: negare ciò che spettava, separare ciò che la legge tiene insieme, spezzare un sistema di tutele che vive di coerenza. Il TAR siciliano, con un eccesso di prudenza, aveva persino condiviso quella visione, trasformando l’applicazione di una legge in un nuovo labirinto.

 

Il CGA ha rimesso i paletti.
 

Ha ricordato che nessuno può chiedere ai cittadini di colmare i vuoti dei moduli ministeriali. Che una domanda fatta nel 2016 con la formula predisposta dallo stesso Ministero è già un’istanza completa. Che la tutela delle vittime di mafia non può essere interpretata come un puzzle complicato: è un edificio unico, un sistema che non consente pezzi mancanti.

 

E soprattutto ha ricordato una cosa che sembra scontata, e invece non lo è: l’effettività della giustizia. Se una sentenza riconosce un diritto, quel diritto va eseguito, non rinviato a un’altra sentenza ancora. Non si può chiedere alle vittime di subire una seconda vittimizzazione, quella burocratica.

Il dispositivo finale è netto: il Ministero deve pagare lo speciale assegno vitalizio — 1.033 euro al mese per ciascuna delle tre donne — con decorrenza dal 4 aprile 2016, più arretrati, interessi e rivalutazione. E se non lo farà entro 120 giorni, sarà il Prefetto di Palermo a intervenire, come Commissario ad acta, per far eseguire ciò che la Repubblica ha già deciso.

 

Ma oltre i numeri, c’è la sostanza.
 

Una decisione come questa non riscrive solo una pratica amministrativa, riordina una gerarchia morale. Dice che lo Stato non può nascondersi dietro un portale informatico. Che il debito verso le vittime di mafia non è materia da contabili, ma un impegno che attraversa la storia repubblicana.
E dice, soprattutto, che tre donne non dovranno più bussare a una porta che avrebbe dovuto essere aperta fin dal primo giorno.

Forse è questo il punto più alto della sentenza: non il denaro, non i paragrafi di legge, non il richiamo ai principi costituzionali.
Ma il fatto che, per una volta, la giustizia non sembri solo un luogo dove si risolvono controversie, bensì una stanza in cui lo Stato si guarda allo specchio e riconosce un proprio dovere rimasto sospeso troppo a lungo.

 



Antimafia | 2025-12-23 14:57:00
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