Come ogni anno, il periodo delle festività natalizie in Sicilia diventa un’occasione per sollevare le sacrosante polemiche legate al caro voli. In tanti, mentre affrontano viaggi della speranza in macchina, treno, nave o spese folli che hanno visto un aumento delle tariffe aeree fino al +900%, si chiedono perché la Sicilia non goda della continuità territoriale. Perché noi siciliani, pur vivendo in un’isola, non possiamo usufruire di tariffe aeree fisse per tornare a casa e siamo invece vittime delle fluttuazioni dei prezzi di mercato?
Tutto nasce da una regolamentazione europea che richiede alle zone che vogliono usufruire della continuità territoriale il rispetto di alcuni requisiti, tra cui dimostrare che l’aereo è l’unico mezzo rapido per connettere il territorio e che i collegamenti non siano adeguatamente garantiti tutto l’anno.
Queste condizioni definiscono una situazione di isolamento strutturale. Quando si dimostra che il mercato, da solo, non è in grado di garantire un servizio adeguato, continuo e accessibile durante tutto l’anno, l’Europa consente allo Stato di intervenire, sovvenzionando economicamente una compagnia aerea affinché offra determinati collegamenti. In questo modo, anche le aree più remote vengono connesse con il resto del Paese, garantendo il diritto alla mobilità dei cittadini.
Per la Sicilia, però, questo riconoscimento non arriva. L’isola, a differenza della Sardegna, dispone di più aeroporti e di collegamenti frequenti con il resto d’Italia. È vero: da Palermo e Catania partono voli diretti verso moltissime città italiane ogni giorno dell’anno. Non esiste quindi un problema di frequenza dei collegamenti. La presenza di voli costanti consente al mercato, in condizioni ordinarie, di mantenere tariffe tutto sommato accettabili. Inoltre, la Sicilia è tecnicamente raggiungibile anche in treno, possibilità che per la Sardegna è di fatto esclusa.
Per tutte queste ragioni, la Sicilia non è considerata una regione strutturalmente isolata e, di conseguenza, valgono le regole del mercato: quando la domanda aumenta, i prezzi salgono.
Eppure qualcosa non torna, soprattutto nei periodi di picco dei rientri, come Natale e estate. Il diritto europeo sembra non tenere conto di un fenomeno sociale che caratterizza ormai intere aree del Paese e, in particolare, la Sicilia: la migrazione giovanile di massa.
Ogni anno circa 40 mila giovani siciliani lasciano l’isola a causa di una situazione economica compromessa, generando quasi un milione di fuorisede. Una condizione sociale non adeguatamente riconosciuta, nonostante numeri così rilevanti da non poter più essere ignorati.
Il fuorisede medio siciliano ha tra i 19 e i 45 anni, è uno studente o un lavoratore che vive in una grande città del Nord Italia. Qui gli affitti sono spesso elevati e, sebbene gli stipendi siano mediamente più alti, restano comunque insufficienti a garantire una reale stabilità. Il fuorisede è spesso residente in Sicilia ma domiciliato altrove, sospeso tra due luoghi, due città, due case.
Nel lungo periodo, questa condizione porta quasi sempre a una scelta definitiva: stabilizzarsi altrove, comprare casa, mettere su famiglia dove si intravede un futuro. I dati confermano che questo accade soprattutto nel Centro-Nord.
Spesso l’uscita dall’isola avviene attraverso gli studi universitari, che diventano la porta da cui non si rientra più.
In questo scenario, il ritorno a casa per le festività non è un capriccio. È il mantenimento di un legame con la famiglia, con il territorio, con le tradizioni. È un’occasione per restare in contatto con possibili opportunità lavorative e per continuare a percepire la Sicilia come casa propria. In altre parole, è uno spiraglio che consente a chi è andato via di non recidere del tutto il rapporto con la propria terra.
Il picco di domanda e il conseguente aumento dei prezzi non possono essere letti solo come un naturale effetto del libero mercato. I fuorisede non viaggiano tutti nello stesso periodo per scelta: è il sistema che li costringe a concentrare i rientri in finestre temporali ristrette. Ed è quindi il sistema che dovrebbe farsi carico di trovare soluzioni.
Il cortocircuito della continuità territoriale sta qui: le regole europee riconoscono l’isolamento geografico, ma non quello sociale. In Sicilia i voli esistono, sono frequenti e i collegamenti garantiti. Ma se tornare a casa è tecnicamente possibile e di fatto economicamente proibitivo, possiamo davvero dire che il diritto alla mobilità sia garantito?
Forse è arrivato il momento di riconoscere la figura del fuorisede meridionale come un cittadino che vive una condizione di precarietà sociale prima ancora che economica. Il periodo che va dalla partenza alla decisione di stabilizzarsi definitivamente altrove è cruciale per tentare di non perdere queste persone, con tutte le conseguenze demografiche ed economiche che la loro assenza comporta.
Se una regione perde giovani perché non riesce a trattenerli, è dovere dello Stato consentire loro di mantenere un legame con quella terra. Non per turismo, ma per coesione sociale. Se la Sicilia perde giovani e il sistema rende difficile il ritorno proprio nei momenti più significativi, si accelera una frattura sociale profonda.
In quest’ottica, la continuità territoriale non è solo una questione di aerei. È una questione di politica demografica, di coesione e di futuro. Raccontarla in questi termini forse aiuterebbe a capire perché per la Sicilia la continuità territoriale non è un privilegio, ma una necessità urgente.
Mariangela Figlia