I dieci anni di "Anima": il dolore che guarda l'uomo dall'esterno
Wajdi Mouawad ha scritto Anima come si scrive una ferita: senza protezioni, senza sconti, senza il desiderio di piacere. A dieci anni dall’edizione italiana pubblicata da Fazi, il romanzo si conferma un long seller anomalo e disturbante, uno di quei libri che continuano a circolare non perché confortano, ma perché interrogano.
Un thriller che non cerca colpevoli, ma origini
La vicenda prende avvio a Montréal, con una scena di violenza assoluta: Wahhch Debch trova la moglie assassinata, incinta, massacrata. Da quel momento il romanzo si muove formalmente come un thriller – c’è un assassino da trovare, una pista da seguire – ma presto è chiaro che Anima non è interessato alla soluzione del caso. La ricerca dell’omicida diventa un viaggio ossessivo e centrifugo, che conduce il protagonista attraverso il Nord America e poi verso il Libano, dentro una memoria personale e collettiva segnata dalla guerra, dal trauma e dalla rimozione.
Il dispositivo radicale: a raccontare sono gli animali
La vera rottura narrativa è la scelta dei narratori. Ogni capitolo è affidato a un animale: un gatto, un cane, un corvo, un insetto, un serpente. Sono loro a osservare, registrare, raccontare. Non interpretano, non giudicano, non cercano redenzione. Guardano l’uomo come una specie tra le altre, spesso più crudele, più irrazionale, più violenta.
Questo bestiario non è un espediente simbolico, ma un dispositivo etico: spostando lo sguardo fuori dall’umano, Mouawad smonta le giustificazioni morali, mostra la violenza come fatto nudo, biologico, storico. L’effetto è straniante e potentissimo: l’orrore non viene filtrato dalla psicologia, ma restituito nella sua evidenza brutale.
Lutto, violenza, identità
Anima è innanzitutto un romanzo sul lutto e sulla sua capacità di deformare l’identità. Wahhch non cerca solo giustizia, ma una spiegazione al male che lo attraversa. Il viaggio porta alla luce un’infanzia libanese segnata dalla guerra civile, dalle appartenenze etniche, dalle colpe ereditarie. La violenza privata e quella storica finiscono per specchiarsi, fino a rendere indistinta la linea che separa vittima e carnefice.
Le scene di violenza – fisica e sessuale – sono dure, spesso insostenibili. Ma non sono mai decorative. Mouawad le usa per costringere il lettore a non distogliere lo sguardo, a restare dentro la domanda fondamentale del libro: che cosa rende l’uomo capace di infliggere dolore?
Una scrittura ipnotica, senza consolazione
La prosa di Mouawad è scarna, ossessiva, fortemente sensoriale. Frasi brevi, immagini corporee, ripetizioni che scavano più che spiegare. La struttura a capitoli brevi, ciascuno con un narratore diverso, crea un ritmo quasi cinematografico, una sequenza di inquadrature che accompagnano la discesa del protagonista.
Non c’è catarsi, né vera pacificazione. Anima rifiuta la consolazione e chiede al lettore una disponibilità rara: quella di attraversare il dolore senza la promessa di un senso finale.
Un libro necessario, ancora oggi
A distanza di dieci anni, Anima appare persino più attuale. In un mondo segnato da guerre periferiche, migrazioni forzate, reti criminali e corpi sacrificabili, il romanzo mostra come la violenza non sia un’eccezione, ma un sistema. La sua durezza non è un vezzo letterario, ma una presa di posizione politica e poetica.
È un libro che richiede stomaco forte e attenzione etica. Non è per tutti, e non vuole esserlo. Ma proprio per questo resta uno dei romanzi più radicali e necessari della narrativa contemporanea: un’opera che non consola, non assolve, non dimentica.
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